Recensione di ‘Educare all’odio’

Pubblicata in “Rivista di Storia dell’Educazione” (CIRSE) 1/2019.

  • IVANO PALMIERI (a cura di), Educare all’odio. L’antisemitismo nazista in tre libri per ragazzi, Verona, Cierre Edizioni, 2018, pp. 186.

Questo lavoro propone, per la prima volta in Italia, tre libri illustrati realizzati nella Germania nazista tra il 1936 e il 1940, il cui scopo dichiarato è insegnare l’antisemitismo ai bambini. Il testo, corredato da un buon apparato critico per l’inquadramento storico e l’analisi del linguaggio, mostra come gli ebrei vengano ridotti a mostri del tutto simili a quelli delle favole: di aspetto sgradevole, spesso contrapposto alla prestanza fisica del modello ariano, si comportano come orchi e streghe, sempre intenti ad approfittarsi subdolamente degli altri, a mimetizzarsi fra i non-ebrei nascondendo i loro nomi ebraici con parole tedesche, a corrompere le persone e soprattutto i giovani con idee e comportamenti insani.

Nella prefazione di Gustavo Corni, una ricostruzione generale delle caratteristiche dell’educazione nei totalitarismi mostra l’interesse spasmodico per l’indottrinamento dei giovani, attraverso organizzazioni come la Hitlerjugend, l’Opera Nazionale Balilla e il Komsomol. L’idea di costruire l’uomo nuovo, realizzatore di una società futura variamente plasmata su differenti ideologie, ha
bisogno di agire sulla formazione personale in ogni momento, dalla scuola al tempo libero, dal lavoro ai momenti di vita privata; e sin dalla più tenera età, se l’ideologia di riferimento promuove un radicale processo di purificazione e rinnovamento razziale. I tre libri riprodotti sono dunque frutto della propaganda razzista rivolta agli scolari più piccoli, «sussidiari realizzati dalla casa editrice della più scurrile e radicale testata antisemita all’interno del regime: “Der Stürmer”, fondata e diretta Julius Streicher» (p. 7), talmente estrema nei toni, scandalistici e violenti, da essere
valutata in modo negativo persino da esponenti del NSDAP.

Arnaldo Loner, studioso di illustrazioni librarie e proprietario degli originali di due dei tre libri riprodotti, parla apertamente di «brutale rottura dell’armonia» tipica della letteratura infantile tedesca. Normalmente, le illustrazioni per bambini esprimono buoni sentimenti, pace, giocosità e rapporti con la natura e la sua bellezza; i tratti, i colori, i soggetti, danno forma alle fantasie che le filastrocche e i giochi di parole descrivono oralmente. Accanto ai momenti di gioia sono rappresentati i pericoli, le paure, sotto forma di creature fantastiche e mostruose, esseri malvagi o dispettosi, luoghi tenebrosi in quella stessa natura che altrimenti è solare e viva. Soprattutto nel caso delle favole e delle fiabe tradizionali, ad esempio quelle dei fratelli Grimm, lo scopo di rappresentare il male è pedagogico, volto a far conoscere al bambino i lati oscuri della vita e prepararlo ad affrontarli, formandone la coscienza morale; la fine delle storie è sempre di riscatto e vittoria del bene sul male, del protagonista sul mostro, del bambino sulla paura. Le immagini, che come si usa dire, valgono più di mille parole, danno corpo a questo scopo con particolare bellezza figurativa (pp. 9-10). Una armonia fatta di parole, immagini e insegnamenti morali, che l’operazione condotta da “Der Stürmer” rompe in maniera così brutale da superare il livello di antisemitismo della “normale” propaganda scolastica di regime.

Dal punto di vista grafico, osserva Loner, c’è persino un degrado crescente della qualità: nel primo dei libri proposti, i pur ripugnanti soggetti sono ben disegnati, dotati di una certa raffinatezza nei tratti, con colori brillanti; nel secondo, le illustrazioni sono più cupe e grossolane, con uno stile più didascalico; nel terzo sono solo schizzi in bianco e nero, disegni “rapidi”, quasi sommersi dal testo. Comune a tutti e tre i libri è invece l’esaltazione grafica di caratteristiche somatiche, posture ed espressioni che differenziano nettamente ariani ed ebrei; sono accompagnate da testi che usano un linguaggio inizialmente simile alle filastrocche, pieno di moniti a fare attenzione ai “segni di riconoscimento” degli ebrei, per poi ridursi a insulti puri e semplici.

Il saggio del curatore Ivano Palmieri, ricco di riferimenti bibliografici, approfondisce tutti questi temi e li colloca nella ricostruzione del percorso educativo del Terzo Reich, a partire dalla riforma scolastica, con la creazione di percorsi e livelli gerarchici man mano più selettivi, l’adesione (sia volontaria che opportunistica) del 97% dei docenti alla “Lega nazionalsocialista degli insegnanti tedeschi”, l’ideologizzazione di programmi e libri di testo, la creazione di scuole specifiche per la formazione dell’élite, l’imposizione di una generale “germanizzazione” della cultura (epurata da influenze straniere ed esente da elementi di creatività personale) e la preminenza dell’iconografia e della “narrazione” antisemite condensate nel Mein Kampf. Palmieri indaga il fascino esercitato dal nazismo sulla gioventù dell’epoca, individuando nell’antisemitismo l’altro lato di una narrazione nazionalista che si nutre dell’esaltazione del mito teutonico e del pangermanesimo, espressa tra l’altro negli stessi testi per bambini (Kinderbücher), con rappresentazioni quasi idilliache della vita quotidiana di famiglie tedesche i cui caratteri “sani” fanno da contrappunto all’idea degli ebrei come “disgrazia”. Come si è detto, la rivista di Streicher era talmente radicale da non godere di grande considerazione negli ambienti nazisti più elevati, quindi i libri presentati nello specifico costituiscono un caso particolare: non furono adottati ufficialmente nelle scuole, dove erano presenti testi altrettanto razzisti, ma la cui impostazione tentava di essere più “seria”, almeno rispetto alla trivialità delle iniziative stürmeriane. Tuttavia, la tiratura in decine di migliaia di copie, l’attività zelante di alcuni docenti, nonché la popolarità diffusa della rivista, contribuirono a
spargerne la fama e l’influenza.

L’analisi dei testi, d’altro canto, rivela come questi libri fossero la summa dell’ideologia antisemita e del progetto razziale per il futuro della Germania. Titoli e copertine sono espliciti. Il primo libro è Non fidarti di una volpe in una verde radura. Non fidarti nemmeno di un ebreo quando giura, corredato dai disegni di una volte e di un ebreo (stereotipato) che hanno evidenti somiglianze fisiche. Il secondo è Il Fungo velenoso, dove tale fungo ha il volto, sempre stereotipico, di un ebreo e incisa una Stella di Davide. Il terzo è un gioco di parole: Il Pudelmopsdackelpinscher, letteralmente “barboncino-carlino-bassotto-pinscher”, con la rappresentazione di uno strano cane di razza bastarda, a indicare la natura meticcia della popolazione ebraica. Il messaggio è violento in tutti i libri, ma cresce di intensità dal primo al terzo.

Nel primo di questi libri, rivolto a “grandi e piccini”, vengono forniti consigli su come riconoscere gli ebrei, secondo un linguaggio semplice e illustrazioni accattivanti, opera di una giovane studentessa d’arte che, in tutta evidenza, aveva ereditato il tratto e lo stile dei libri per bambini tradizionali, a cominciare dall’uso, per le didascalie, della grafia Sütterlin, molto in voga all’epoca per questo genere letterario. Per quanto riguarda il contenuto, vi è la riproposizione degli stereotipi antisemiti: gli ebrei discendono dal diavolo, sono differenti dal lavoratore tedesco, commettono azioni subdole e riprovevoli, sono assassini per natura (in quanto “uccisori di Cristo”), si distinguono in vari tipi con caratteristiche ben individuabili (forma del naso, colore della pelle, tipo
di capelli ecc.). La reazione del tedesco arriva nella forma di una espulsione degli ebrei dal suolo patrio. Dedicato ai bambini delle elementari, il protagonista delle tavole è l’Ebreo e le sue caratteristiche, messe in risalto dalle differenze con gli “ariani”: in particolare una illustrazione compara, in due vignette speculari, l’aspetto e i tratti somatici di un operaio/contadino biondo e atletico, intento a lavorare, e un ebreo scuro, brutto, grasso e vestito da ricco borghese, intento a sfruttare gli altri (p. 69).

Nel secondo libro, una serie di episodi sono “conferme” all’idea che gli ebrei siano «funghi velenosi in mezzo agli uomini» (p. 51). Essendo rivolto a un pubblico un po’ più grande (scuole medie), il protagonista è di solito un ragazzino tedesco in cui i lettori possano immedesimarsi; egli scopre i trucchi dell’Ebreo, ne testimonia le nefandezze e lo irride. Spesso possiede già delle conoscenze in merito, prima ancora di essere avvertito e istruito dagli adulti, quasi possedesse una sorta di “istinto di razza”; un espediente narrativo che cerca di eliminare i dubbi sulla bontà delle descrizioni proposte. Alla fine di ogni storia, una filastrocca pseudo-popolare riassume in pochi versi il messaggio di odio che permea l’episodio.

Il terzo libro, rivolto ai ragazzi delle superiori, sul fronte grafico è ridotto all’essenziale, laddove il messaggio antisemita è affidato a testi allegorici: in ogni racconto avviene la comparazione tra un animale sgradevole o dannoso e l’Ebreo, che viene quindi proposto come l’equivalente umano di quell’animale. L’uso dell’allegoria serve a convincere i giovani più grandi a identificare l’Ebreo con il mimetismo dei camaleonti, la spietatezza del serpente, l’opportunismo dei passeri, la dannosità delle cimici, la malattia dei bacilli e via discorrendo. La conclusione, data questa identificazione degli ebrei con animali pestiferi, è assolutamente chiara e consequenziale: sterminio.

Palmieri nota come in tutti i libri si usi di preferenza il termine “l’Ebreo”, anziché “gli ebrei” o altre formule, come individuazione di una intera razza allo stesso modo delle scienze naturali, che nell’usare il termine “l’orso” o “il cane” intendono riferirsi alla specie e non all’individuo. L’individuazione dell’Ebreo attraverso caratteri somatici, atteggiamenti e nomi propri di uso comune (per esempio Isaac o Ershel), massifica il popolo ebraico in una specie a se stante, non umana o sub-umana, con elementi riconoscibili come in una qualsiasi specie animale. In questo modo si evitano anche distinzioni individuali tra questo e quell’ebreo, per cui alcuni potrebbero anche essere “buoni” o “redimibili”. Gli ebrei convertiti al cristianesimo, ad esempio, restano
sempre ebrei, mimetizzati, meticciati come il cane bastardo che riunisce in sé varie razze, impuro, dunque corruttore.

La casa editrice Cierre, in una nota editoriale, rende conto delle preoccupazioni sorte durante le riunioni per discutere dell’opportunità di dare alle stampe simili testi. Dubbi legittimi: è giusto mettere in mostra orrori di questo genere? Renderli noti a rischio che qualcuno ne faccia un uso errato? Ma infine ha prevalso l’idea di aggiungere documenti alla storia della Shoah, testimoniare una forma particolare dei prodromi dello sterminio di massa attraverso l’educazione infantile, avvertire dei rischi che si stanno riaffacciando sulla scena culturale internazionale (p. 13). E anche per coadiuvare l’opera di decodificazione della semantica antisemita, razzista e xenofoba: in questi libri è evidente la dialettica del “noi contro di loro”, per cui la comunità nazionale, solidamente radicata nel territorio e nella tradizione, è insidiata dall’Ebreo che, errando tra i popoli, è in sé uno
“straniero”, come tale è «sporco, pidocchioso e senza un soldo» e anche quando riesce a cavarsela rimane sempre individuabile per il «cattivo odore» che emana, dovuto alle sue abitudini insane e alla sua cultura di origine (p. 54). Termini che riecheggiano ancora oggi, rivolti tanto ai migranti quanto all’interno della comunità nazionale, tra compatrioti di regioni diverse.

Il ritorno alla ribalta di posizioni e idee nazionaliste, scioviniste e apertamente ostili verso ogni tipo di diversità (etnica, culturale, sessuale), diffusosi come un’onda politica al livello internazionale negli ultimi anni, ha generato preoccupazioni in vari settori dell’opinione pubblica e delle istituzioni, portando a parallelismi con la situazione degli anni Dieci e Venti del secolo scorso, facendo parlare di “proto-fascismo” e conseguenti rischi per la democrazia e la civile convivenza (quest’ultima, funestata da episodi di intolleranza e di violenza sempre più frequenti). I fattori scatenanti di tali “rigurgiti” possono essere ricercati nella crisi internazionale dell’economia e sue ricadute locali, nella percezione talvolta distorta dell’emergenza migratoria attuale, nella più generale perdita di riferimenti certi e sicuri, attraverso gli effetti dei processi di globalizzazione. La reazione a questa vita liquida, per dirla con Bauman, si risolve in una ricerca spasmodica di solidità, di certezze e, in ultima analisi, di identità. Un’identità la cui ricostruzione è in fondo semplice: cioè basata sulla ricerca di quanto accomuna e l’esclusione di ciò che divide, arrivando a costruire un Nemico e a caricarlo dei pericoli e delle colpe che rendono la vita odierna incerta e difficile.

Questo meccanismo, ormai ben noto eppure sempre efficace, deve essere affrontato con i mezzi più consoni, che vanno oltre l’uso della legge e del diritto e investono l’informazione e l’educazione. Già la pubblicazione dell’edizione critica del Mein Kampf a opera dell’Associazione “Free Ebrei” (a cura di V. Pinto e A. Cambatzu, edito da Mimesis nel 2017), aveva proposto il superamento del tabu legato al testo hitleriano e la “vivisezione” del linguaggio e delle affermazioni in esso contenute, al fine di spezzarne l’incantesimo e la fascinazione; a maggior ragione, dopo la scadenza dei diritti autoriali nel 2015 e l’entrata nel pubblico dominio dell’opera del dittatore, di cui si sono moltiplicate le edizioni a opera di case editrici politicamente interessate.

In conclusione, si può affermare che l’educazione nazionalsocialista fu la forma più organica, pervasiva e brutale di condizionamento ideologico a tutti i costi, per ottenere un popolo militarizzato, pronto alla guerra e razzista senza reticenze. I libri per bambini qui presentati ne sono forse l’espressione più ripugnante, una deformazione perversa delle favole e delle fiabe tradizionali, in cui il confronto tra bene e male diviene scontro razziale, il mostro non è più magico bensì “biologico”, il riscatto finale coincide con la morte e lo sterminio. La preparazione dei bambini a questo finale costò a Streicher l’impiccagione nel Processo di Norimberga (p. 57), per la sua attiva partecipazione al condizionamento della Germania verso la mentalità richiesta dall’ideologia
nazista, con l’instillazione di concetti elitari e razziali volti all’esclusione della diversità dalla comunità nazionale. Streicher invocava infatti da tempo, pubblicamente, lo sterminio degli ebrei, che poi si concretizzò nell’adozione della “soluzione finale”.

La promulgazione delle leggi razziali in Italia nel 1938 eliminò l’ultima differenza concreta tra i due totalitarismi, portando alla realizzazione di campagne antisemite nella società e nella scuola attraverso riviste, testi e strisce a fumetti, la cui tendenza razzista era da tempo agevolata dall’espansione coloniale in Africa. Anche in questo caso si rivelerebbe opportuno continuare l’opera di decodificazione delle “narrazioni tossiche” che contribuiscono a invalidare il dibattito pubblico in merito.