Il principio di esclusione nell’educazione totalitaria e l’inclusione multiculturale nella scuola democratica
Pubblicato in “Il Nodo” (Falco Editore), supplemento al n. 49 (dicembre 2019).
- Premessa
- L’educazione nel regime fascista
- Caratteristiche del pensiero pedagogico di Gentile
- L’educazione nel regime nazista
- L’educazione in URSS tra rivoluzione e stalinismo
- Il principio di inclusione nella scuola multiculturale
- In conclusione
Premessa
Il concetto di totalitarismo è stato definito nei suoi termini fondamentali da Hannah Arendt, che ha riscontrato nelle grandi dittature europee, nonostante la forte contrapposizione in termini di ideali fondanti e concezioni del mondo, alcuni punti in comune rispetto all’organizzazione politico-sociale: controllo pervasivo della vita dei cittadini, partito unico al potere, ideologia come progetto d’azione per l’intera società civile e per lo Stato, apparato repressivo particolarmente efficiente e brutale, irreggimentazione del popolo e in particolare dei giovani1. L’omologazione identitaria, conseguente al tentativo di definire la fisionomia della comunità e dei suoi membri, si basa sul principio di esclusione, per cui la diversità di opinioni, di razza, di ceto e via dicendo, è negata, e tutti gli individui che non rientrano nei canoni scelti per la definizione dell’identità nazionale unitaria sono esclusi dalla partecipazione sociale.
In questo sistema fortemente strutturato, l’educazione è naturalmente un mezzo di enorme importanza per la formazione del cittadino-modello. L’educazione totalitaria annulla i diritti e le aperture democratiche, subordina i bisogni individuali a quelli del regime e si estende oltre la scuola, per organizzare anche il tempo libero degli studenti. Lo Stato, che con l’avvento della società di massa ha assunto un ruolo di guida e di organizzazione delle società moderne, nei regimi totalitari viene esaltato ed esasperato nelle sue qualità (e quindi anche nei suoi limiti) come apparato unificante del pensiero e dell’azione; l’educazione e le pratiche pedagogiche sono perciò tutt’uno con i programmi di sviluppo economico, politico e sociale, portando la pianificazione nazionale a livelli mai raggiunti prima a cavallo tra XIX e XX secolo. In questo ambito, l’attenzione al tempo libero come momento di educazione e indottrinamento ulteriore, costituisce uno dei punti più originali, ancorché coercitivi, della formazione extrascolastica totalitaria.
Esaminiamo dunque i tre principali totalitarismi europei, ossia fascismo, nazismo e stalinismo, assumendoli come paradigmi per rintracciarne non solo i punti in comune, ma anche le differenze2. In contrasto a questi modelli, inoltre, ribadiamo il principio di inclusione che caratterizza la scuola democratica italiana nelle sue trasformazioni multiculturali.
L’educazione nel regime fascista
Nel fascismo si ha il primo esempio della formazione di una scuola improntata al servizio di un regime dittatoriale. Sono distinguibili due fasi: inizialmente, la scuola è riorganizzata in modo sistematico secondo le direttive della Riforma Gentile3 del 1923, dai tratti fortemente conservatori, gerarchica e molto selettiva. Introduce l’insegnamento della religione nella scuola elementare, per fornire al popolo una concezione del mondo; distingue i corsi tra letterari-umanistici e tecnici, i primi adatti alla formazione delle classi dirigenti, i secondi per le classi subalterne; i cicli scolastici si concludono con gli esami di Stato, l’accesso alle università è riservato a chi ha frequentato il liceo. Nonostante sia stata definita da Mussolini “la più fascista delle riforme”, il problema avvertito dallo stesso regime è l’eccessiva rigidità del sistema selettivo, che cozza con le necessità di ammodernamento e mobilitazione di massa.
La seconda fase vede allora prevalere, dal 1925 in poi, la vera e propria fascistizzazione della scuola, con vari provvedimenti che conformano l’educazione all’ideologia del regime e ai suoi interessi: introduzione del libro di testo unico nella scuola elementare, estensione dell’insegnamento della religione alle scuole secondarie, giuramento di fedeltà al regime da parte di tutti i docenti, ideologizzazione dei programmi di studio, progressiva militarizzazione della scuola, tentativo di collegare questa con il mondo del lavoro in vista della pianificazione a lungo termine dei processi di sviluppo. Inoltre viene introdotta l’organizzazione delle attività extrascolastiche, attraverso la costituzione dell’Opera Nazionale Balilla per i bambini e della Gioventù Italiana del Littorio per gli adolescenti, che attraverso feste, gare, comizi, raduni e altre iniziative, occupano il tempo libero degli allievi e ne espandono l’indottrinamento e il coinvolgimento, conformando così la cultura nei termini del regime. Negli anni universitari, aderendo ai Gruppi Universitari Fascisti, si possono affiancare agli studi altre iniziative ideologiche, come la frequenza della Scuola di Mistica Fascista o la partecipazione ai Littoriali (gare universitarie di varia natura). La caratteristica principale di questa educazione extrascolastica è quella di svolgersi in maniera parallela all’educazione formale nella scuola e a quella informale nella famiglia, occupando ogni momento della vita individuale e creando così una cultura di massa conformistica e disciplinata, nell’adesione ai valori morali e allo stile di vita previsti dal fascismo4.
Il culmine del processo è la Riforma Bottai del 1939, con l’elaborazione della Carta della scuola che, a causa della guerra, non avrà una realizzazione concreta. La fascistizzazione scolastica è resa chiara ed evidente sin dalle prime righe del testo5, che si articola in ventinove “dichiarazioni” sulla natura e l’organizzazione della scuola in seno al regime:
I Dichiarazione – Nell’unità morale, politica ed economica della Nazione italiana, che si realizza integralmente nello Stato Fascista, la Scuola, fondamento primo di solidarietà di tutte le forze sociali, dalla famiglia alla Corporazione, al Partito, forma la coscienza umana e politica delle nuove generazioni. La Scuola fascista, per virtù dello studio, concepito come formazione di maturità, attua il principio d’una cultura del popolo, ispirata agli eterni valori della razza italiana e della sua civiltà; e lo innesta, per virtù del lavoro, nella concreta attività dei mestieri, delle arti, delle professioni, delle scienze, delle armi.
Nella relazione in calce alle dichiarazioni, Bottai sottolinea l’approdo a una visione compiutamente totalitaria:
L’idea d’una «Carta della Scuola» mi fu, da Voi, Duce, indicata come la più acconcia a darci un agile strumento di riforma dei nostri ordinamenti scolastici, e soprattutto, dei loro principi, fini e metodi. Una legge, infatti, non avrebbe corrisposto allo scopo, che non è tanto quello di riformare l’una o l’altra struttura scolastica […], quanto quello di mettere la Scuola italiana, tutta la Scuola, dalla pre-elementare o materna, all’universitaria, su di un altro piano. Sul piano, cioè, del Fascismo, della sua dottrina, dell’assetto politico-costituzionale, che, insieme a nuovi ordinamenti sociali ed economici, ne è stato promosso. […] Nè il richiamo frequente alla «Carta del Lavoro» è occasionale o formale. Uno è lo spirito, con cui il Regime procede, dal lavoro alla Scuola. Perciò, questa, nella I Dichiarazione, si inquadra nella definizione dello Stato, dettata dalla I Dichiarazione della «Carta del Lavoro»; e vi s’inquadra dando subito il senso della sua «socialità» e della sua «politicità », proclamando la sua volontà di valersi del lavoro per inserire la sua attività di cultura nella concreta attività produttiva del popolo, inteso nella sua più alta e vasta accezione. Questo del «lavoro» è uno dei principii essenziali della riforma […]. Si rispecchia in questa «Carta », con chiarezza di contorni, la Scuola fascista, quale le profonde mutazioni politiche, culturali e sociali, determinate dalla Rivoluzione, vogliono che sia perché possa adempiere ai suoi compiti nella vita reale del popolo italiano […].
Due tendenze apparentemente opposte si mescolano nella riforma ideata da Bottai: la facilitazione dell’ingresso alle scuole superiori per le classi subalterne, ponendo peraltro sullo stesso piano materie scientifiche e materie umanistiche, nettamente divise da Gentile; e l’applicazione stretta e radicale delle leggi razziali nella scuola, di cui Bottai è convinto assertore6. A una innovazione che, nell’ottica totalitaria, potrebbe comunque definirsi di “inclusione” e apertura, corrisponde però l’esigenza di epurazione del corpo docente, al fine di mantenere e rinforzare il controllo tramite l’esclusione degli elementi indesiderati.
Caratteristiche del pensiero pedagogico di Gentile
Nonostante la breve durata della riforma gentiliana durante il fascismo, nel dopoguerra la sua struttura generale è stata ripresa e adattata all’Italia repubblicana e democratica, riconoscendovi elementi di validità organizzativa e teorica al di là delle posizioni politiche. Per comprendere appieno, quindi, il ruolo di Gentile nella prima fase dell’educazione fascista, conviene tenere a mente i punti fondamentali del suo pensiero pedagogico7. In esso, contro la pretesa scientificità dell’educazione attiva (espressione del variegato movimento della Scuola Nuova, di cui ricordiamo almeno John Dewey e Maria Montessori), si recupera la matrice prettamente filosofica della pedagogia, fino a intenderla come parte integrante della filosofia stessa. Gentile è il principale esponente del neoidealismo italiano e, come è noto, appoggia il fascismo fornendo elementi filosofici per una base teorica, o almeno un ordine concettuale che dia significato alla prassi del regime. Prendiamo allora un momento per riassumere alcuni punti fondamentali: nella versione gentiliana dell’idealismo, denominata attualismo, l’atto del pensiero puro è il fondamento unico della realtà. Questo assunto indica la natura metafisica e spirituale della sua concezione del mondo e, di conseguenza, della sua idea di pedagogia.
Il positivismo che ispira la pedagogia scientifica della Scuola Nuova, secondo Gentile frammenta la conoscenza e riduce a questione tecnica il rapporto tra insegnante e allievo; ma il processo dell’educazione è comprensibile solo in una prospettiva unitaria e organica, che vede nel movimento dello spirito e nella sua evoluzione lo scopo reale dell’educazione stessa. La scienza reale è solo la filosofia, con la soluzione dei dualismi, delle frammentazioni, in una visione unitaria tra soggetto e oggetto; le scienze naturalistiche, invece, negano la natura spirituale dell’uomo, riducono tutto il processo a “tecnica” con cui “uno spirito promuove la crescita di un altro spirito”, come se fossero entità separate invece che parti di un unico processo trascendentale. La separazione tra soggetto e oggetto significa separazione tra teoria e pratica, ovvero tra conoscenza e azione, complicando inutilmente il processo educativo e presentando la pedagogia come uno strumento operativo, anziché come una conoscenza teoretica. La conseguenza è presentare l’educazione in termini materialistici, invece che spirituali, e basare così la pedagogia su una concezione meccanicistica dell’uomo. La scuola è invece il luogo della formazione dello spirito e la didattica deve promuovere la soluzione dei dualismi (ossia delle separazioni), come quelli tra istruzione e educazione, educazione formale e educazione morale, educazione religiosa e educazione scientifica, ecc., unificandoli in un processo dialettico di mutuo completamento, la vita spirituale nel suo proprio svolgimento.
Il problema della visione gentiliana è il suo forte conservatorismo, che la rende refrattaria ai cambiamenti. La vita nella scuola è ridotta al solo rapporto tra maestro e allievo, facendo così un passo indietro rispetto alla complessità sorta nella società moderna ed evidenziata dall’attivismo della Scuola Nuova. L’unità dell’atto educativo, che unisce maestro e scolaro, finisce col riaffermare la centralità del primo, la sua preparazione e la sua autorità, lasciando in secondo piano i bisogni e interessi del secondo, in quanto l’idea di sviluppo spirituale implica una posizione avanzata dell’adulto rispetto al bambino. La comunicazione spirituale dialettica tra i due soggetti, allo stesso modo, poggia su una pratica didattica che in linea di massima riporta alla lezione frontale a senso unico, tramite l’estensione della cultura dal docente all’allievo. Lo spazio riconosciuto alla spontaneità del bambino-allievo, che verrebbe soppiantata nella pedagogia scientifica dalla visione meccanicistica dell’essere umano, viene altrettanto smorzato nella rigidità tradizionalista che emerge dalle idee sull’organizzazione scolastica.
L’idea di laicità della scuola, affermata dal positivismo, è avversata da Gentile proprio in virtù della sua concezione spirituale: la religione è un “orientamento ideale” che guida l’azione scolastica e la crescita dei bambini, i quali non hanno ancora la possibilità di assumere una visione propriamente filosofica del mondo; una vera educazione deve fornire valori morali definitivi, e la religione può garantirli in forme più semplici e immediate.
La dinamicità della vita spirituale, l’attenzione all’educazione artistica come creatività, il riconoscimento della spontaneità del bambino, la concezione della filosofia come sola vera “scienza”, sono elementi considerati in prospettiva conservatrice, totalmente alternativa alle scienze dell’educazione influenzate dal positivismo materialistico. In questo modo, la difesa della natura filosofica della pedagogia riafferma la centralità del docente, la passività della lezione, la necessità della disciplina in aula, la superiorità delle materie umanistiche su quelle scientifiche. Nell’ideale relazione dialettica tra scienza e filosofia, libertà e autorità, spontaneità e disciplina, che Gentile cerca di mediare e risolvere in una sintesi che ne colga l’unità fondamentale, la soluzione reale privilegia sempre le seconde, pervenendo a una posizione antimoderna8.
L’educazione nel regime nazista
Il nazismo si presenta come la forma più brutale e violenta di irreggimentazione ed esclusione. Ispirata dalle idee espresse nell’opera di Hitler, Mein Kampf9, l’educazione nel regime nazionalsocialista è immediatamente improntata alla militarizzazione di tutte le attività scolastiche ed extrascolastiche e all’indottrinamento pervasivo ai valori fortemente razzisti dell’ideologia. Le similitudini con il regime di Mussolini sono molte: giuramenti di fedeltà al Fürher di insegnanti e studenti, irreggimentazione in organizzazioni paramilitari, ideologizzazione dei testi di studio. Ma i caratteri autoritari e soprattutto razzisti sono sperimentati con maggiore efficacia e una diffusione capillare: i testi scolastici eliminano tutti gli elementi culturali non conformi all’ideologia del Partito, indebolendo gli studi tramite l’appiattimento sui principi del razzismo e della disciplina militare; l’educazione fisica assume un ruolo determinante per coniugare la sanità del corpo con la “corretta” forma mentis (aspetto presente anche nel fascismo); i docenti devono aderire alla “Lega nazionalsocialista degli insegnanti” per compiere un aggiornamento ai principi ideologici del regime e contribuire così a una pedagogia specificamente nazista. La formazione delle classi dirigenti è affidata alle Scuole “A. Hitler” e ai Castelli dell’Ordine, sotto il controllo per Partito, mentre la vita dei giovani è assorbita, tra i 6 e i 18 anni, dalla Gioventù Hitleriana: la partecipazione a campeggi, sedute di propaganda, gare ginniche e altre attività è accompagnata dal controllo dei progressi di ogni singolo ragazzo, da valutare tramite un apposito libretto, un registro su cui segnare i risultati delle attività e tenere d’occhio l’efficacia della manipolazione ideologica. L’educazione nazionalsocialista è la forma più pervasiva, brutale e organica di condizionamento ideologico a tutti i costi, per ottenere un popolo militarizzato, pronto alla guerra e all’obbedienza, razzista senza reticenze.
A questo proposito, una recentissima pubblicazione propone tre libri illustrati realizzati sotto il nazismo, il cui scopo dichiarato è insegnare l’antisemitismo ai bambini10. Il testo, corredato da un buon apparato critico per l’inquadramento storico e l’analisi del linguaggio, mostra come gli ebrei vengono ridotti a mostri del tutto simili a quelli delle favole: di aspetto sgradevole, spesso contrapposto alla prestanza fisica del modello ariano, si comportano come orchi e streghe, sempre intenti ad approfittarsi subdolamente degli altri, a “mimetizzarsi” fra gli altri nascondendo i loro nomi ebraici con parole tedesche, a corrompere le persone e soprattutto i giovani con idee e comportamenti insani. In particolare nel primo di questi libri, le illustrazioni sono accompagnate da didascalie che usano un linguaggio inizialmente simile alle filastrocche, pieno di moniti a fare attenzione ai segni di riconoscimento degli ebrei, per poi gradualmente ridursi a insulti puri e semplici. I tre libri riprodotti sono dunque frutto della propaganda razzista rivolta agli scolari più piccoli, «sussidiari realizzati dalla casa editrice della più scurrile e radicale testata antisemita all’interno del regime: “Der Stürmer”, fondata e diretta Julius Streicher» (G. Corni, p. 7), talmente estrema nei toni, scandalistici e violenti, da essere valutata in modo negativo persino da taluni esponenti del Nsdap.
Il saggio del curatore Ivano Palmieri, ricco di riferimenti bibliografici, approfondisce la ricostruzione del percorso educativo del Terzo Reich, a partire dalla riforma scolastica, con l’imposizione di una generale “germanizzazione” della cultura (epurata da influenze straniere ed esente da elementi di creatività personale) e la preminenza dell’iconografia e della “narrazione” antisemite condensate nel Mein Kampf. Palmieri indaga il fascino esercitato dal nazismo sulla gioventù dell’epoca, individuando nell’antisemitismo l’altro lato di una narrazione nazionalista che si nutre dell’esaltazione del mito teutonico e del pangermanesimo, espressa tra l’altro negli stessi testi per bambini (Kinderbücher), con rappresentazioni quasi idilliache della vita quotidiana di famiglie tedesche i cui caratteri “sani” fanno da contrappunto all’idea degli ebrei come “disgrazia”. Come si è detto, la rivista di Streicher era talmente radicale da non godere di grande considerazione negli ambienti nazisti più elevati, quindi i libri presentati nello specifico costituiscono un caso particolare: non furono adottati ufficialmente nelle scuole, dove erano presenti testi altrettanto razzisti, ma la cui impostazione tentava di essere più “seria”, almeno rispetto alla trivialità delle iniziative stürmeriane. Tuttavia, la tiratura in decine di migliaia di copie, l’attività zelante di alcuni docenti, nonché la popolarità diffusa della rivista, contribuirono a spargerne la fama e l’influenza.
L’analisi dei testi, d’altro canto, rivela come questi libri fossero la summa dell’ideologia antisemita e del progetto razziale per il futuro della Germania. Titoli e copertine sono espliciti. Il primo libro è Non fidarti di una volpe in una verde radura. Non fidarti nemmeno di un ebreo quando giura, corredato dai disegni di una volte e di un ebreo stereotipato che hanno evidenti somiglianze fisiche. Il secondo è Il Fungo velenoso, dove tale fungo ha il volto, sempre stereotipico, di un ebreo e incisa una Stella di Davide. Il terzo è un gioco di parole: Il Pudelmopsdackelpinscher, letteralmente “barboncino-carlino-bassotto-pinscher”, con la rappresentazione di uno strano cane di razza bastarda, a indicare la natura meticcia della popolazione ebraica. Il messaggio è violento in tutti i libri, ma cresce di intensità dal primo al terzo.
Si può dire che il nazismo abbia realizzato senza esitazioni o mediazioni di sorta ciò che nel fascismo è andato costruendosi nell’arco della sua esistenza, ossia una scuola integrata nel regime e pienamente funzionale ai suoi interessi e obiettivi, un’organizzazione giovanile con un piano di indottrinamento a medio termine e l’instillazione di concetti elitari e razziali volti all’esclusione della diversità dalla comunità nazionale. La promulgazione delle leggi razziali in Italia nel 1938 elimina l’ultima differenza concreta tra i due totalitarismi, portando alla realizzazione di campagne antisemite nella società e nella scuola attraverso riviste, testi e strisce a fumetti, la cui tendenza razzista era da tempo agevolata dall’espansione coloniale in Africa11.
L’educazione in URSS tra rivoluzione e stalinismo
L’educazione sovietica ha seguito percorsi differenti12. Nel periodo che va dalla Rivoluzione d’Ottobre del 1917 all’ascesa al potere di Stalin, nel 1927, la pedagogia è stata improntata a una grande sperimentazione, con vari modelli applicati per trovare, innanzitutto, una radicale alternativa e innovazione rispetto ai metodi arcaici ancora diffusi in gran parte dell’ex-Impero zarista. E, inoltre, per stimolare la formazione dell’uomo nuovo, l’individuo consapevole delle sue capacità e inserito allo stesso tempo nella collettività, pronto a cooperare per il bene comune anziché perseguire finalità egoistiche. Al centro delle sperimentazioni, aperte ai principi scientifici e alle novità, c’è la fondazione della scuola politecnica del lavoro, che si impegna a creare una unità sinergica tra l’apprendimento scolastico e il lavoro nelle fabbriche; i programmi privilegiano il sapere tecnico-scientifico e le sperimentazioni volte ad ampliare l’orizzonte culturale degli allievi, per superare la vecchia educazione religiosa e nazionalista pre-rivoluzionaria. Un’esponente di primo piano è sicuramente l’educatrice Nadežda Krupskaja13, la quale ritiene la formazione di una disciplina cosciente l’obiettivo principale dell’educazione, da raggiungere tramite metodi didattici che stimolino la creatività, la coscienza sociale, l’autonomia; anche grazie al suo impegno, si creano le organizzazioni giovanili del Partito: il Komsomol, per i giovani adulti, tramite cui organizzare attività improntate alla didattica politecnica per attuare i principi del leninismo, e l’Organizzazione dei pionieri di tutta l’Unione, per le attività extrascolastiche rivolte ai bambini. Nel periodo della NEP si assiste inoltre a una diffusione crescente di scuole di cultura e istituti professionali, aumentando la varietà di approcci educativi.
Questo periodo, breve e intenso, si conclude con la generale “normalizzazione” conseguente all’avvento del periodo dittatoriale più duro, oggi definibile appunto come stalinismo, durante cui la scuola assume forme più canoniche, con orari, programmi, valutazioni e pratiche didattiche rivolte all’efficienza e alla rapidità. Lo studio torna a essere sistematico e viene slegato dal lavoro, abbandonando l’attivismo e le sperimentazioni. Allo stesso tempo, si irrigidisce anche il contenuto degli insegnamenti, allineandolo alle posizioni ufficiali dello Stato con nuovi libri di testo e metodi didattici; il sistema scolastico si espande rapidamente e aumenta la sua efficienza, mentre l’attivismo pedagogico viene ufficialmente condannato. Tra le teorie originali sviluppate negli anni Trenta e sopravvissute alla normalizzazione staliniana, va ricordata quella di Anton S. Makarenko che coniuga elementi ideologici rivoluzionari con principi di organizzazione militare e vede negli studenti e negli insegnanti due collettivi in collaborazione14.
A seguito della Rivoluzione, la reazione libertaria all’educazione zarista è evidente, le possibilità offerte dalla sperimentazione educativa sono potenzialmente vastissime; ma l’influenza di alcune idee “rousseauiane” o puerocentriste, è considerata da Makarenko rischiosa per la concezione individualistica che ne sta alla base: l’educazione incentrata sull’individuo tende a isolarlo dalla società, a prenderlo nella sua unicità senza tener conto della collettività cui dovrebbe essere preparato a partecipare. Criticando questo tipo di attivismo pedagogico, Makarenko sostituisce all’idea della spontaneità individuale quella della disciplina, che fonda la pedagogia direttiva, ossia un tipo di indirizzamento dell’individuo verso l’integrazione nel collettivo, laddove lo spontaneismo può aprire a tendenze egoistiche. La maturazione, attraverso la disciplina, della responsabilità, è uno dei risultati più importanti dell’azione pedagogica, perché unisce l’applicazione delle regole collettive alla comprensione della loro ragion d’essere, contribuendo così alla formazione di linee prospettiche condivise tra i pensieri individuali e quelli collettivi, ossia la coscienza politica rivolta all’edificazione della società socialista.
Sul fronte delle attività extrascolastiche, anche nello stalinismo le organizzazioni giovanili vengono irreggimentate, e riunite in strutture dove compiere attività di gruppo, anche in questo caso festival, gare ginniche, comizi di propaganda e via dicendo, sempre con l’obiettivo fondamentale di formare il cittadino comunista, conforme all’ideologia ufficiale e inserito nel collettivo sociale. Un punto di particolare lontananza dagli altri due totalitarismi, oltre a una relativamente “minore” pressione manipolatoria, è l’atteggiamento nei confronti della religione: nonostante la dichiarata libertà di culto e di ateismo15, la lotta ideologica contro il pensiero religioso, volta a sradicarlo, è stata una costante della propaganda fino all’inizio della Seconda guerra mondiale; questo sia per questioni ideologiche (il marxismo in sé è una corrente filosofica basata sul materialismo e, con Stalin, questo aspetto viene irrigidito nella codificazione del marxismo-leninismo), sia per questioni storiche legate al passato zarista, in cui la Chiesa aveva il controllo totale dell’educazione e propugnava un nazionalismo conservatore e reazionario16.
Inoltre, occorre sottolineare come l’ideologia internazionalista e la natura multietnica dell’URSS lascino spazio a visioni di fratellanza e integrazione etnico-culturale che, per quanto sfruttate a fini propagandistici, costituiscono un’ulteriore differenza nelle modalità dell’esclusione sociale. Nello stalinismo, il principio di esclusione si basa su un’interpretazione di classe, per cui il nemico del popolo è chiunque sia sospettato di agire in modo controrivoluzionario17, al di là di provenienze o appartenenze etniche.
Il principio di inclusione nella scuola multiculturale
La rinascita della democrazia europea nel dopoguerra apre le porte al principio di inclusione nella scuola e nella società18. Il percorso è stato naturalmente molto lungo e difficoltoso, trovando dapprima voci critiche nell’opera teorico-pratica di don Milani19 e nell’impegno politico di Franco Basaglia20, poi concretizzazioni istituzionali nel corso degli anni, a partire dalle riforme dei Provvedimenti delegati sulla scuola (1973-1974). Da allora, il concetto fondamentale del principio è passato attraverso una caratterizzazione semantica significativa: inizialmente si è parlato di inserimento degli alunni con bisogni speciali nelle classi della scuola pubblica, abolendo di fatto le scuole speciali e le classi differenziali; poi si è passato all’idea di integrazione, giungendo infine all’inclusione vera e propria21. Se dunque nei regimi fascista e nazista l’esclusione della diversità riguardava ogni possibile “deviazione” dalla norma imposta secondo i parametri razziali e nazionalistici del regime, sia che si trattasse di alunni con disabilità, sia che si attuasse la repressione e l’esclusione violenta delle culture ritenute differenti su base etnica22, il percorso della scuola democratica ha inteso allargare l’inclusione per realizzare l’obiettivo di una scuola per tutti e per ciascuno.
Il processo non è stato però semplice e, per sua natura, non prevede una conclusione, bensì un aggiornamento costate di termini, interventi e investimento di risorse. Nel 2001, per esempio, è stata condotta una ricerca sul territorio nazionale per la verifica della situazione in termini di multiculturalità delle scuole; per quanto i dati statistici raccolti siano ormai obsoleti, può essere interessante sottolineare alcune caratteristiche ancora oggi riscontrabili nella situazione attuale23.
La presenza di alunni stranieri nella scuola italiana è un aspetto fondamentale degli ultimi decenni, poiché implica la trasformazione della scuola nazionale in senso multiculturale, accogliendo cioè culture differenti, con l’incontro (e lo scontro) tra usi e costumi differenti, tra mentalità e bagagli culturali talvolta molto lontani. Questo riguarda non solo i rapporti tra studenti italiani e studenti stranieri, bensì l’interazione di questi con i docenti, e dei docenti con le famiglie; i problemi che si presentano possono essere, perciò, piuttosto complicati, in vista dell’obiettivo più importante, l’integrazione. Non è più sufficiente l’approccio dell’accoglienza solidaristica, che aveva caratterizzato le scuole nei primi tempi di inserimento dei figli di immigrati nelle classi. Oggi è necessario che i docenti siano pronti ad affrontare la diversità nel quotidiano della vita scolastica, che le famiglie si interessino delle attività e siano preparate a capire le scelte dei docenti, e che gli studenti stessi vengano stimolati a interagire.
In tempi recenti l’onda migratoria da varie parti dell’area mediterranea, in particolar modo dall’Africa del nord e dal Medio oriente, ha accentuato molto le questioni in merito al multiculturalismo nella scuola; ma la presenza pluridecennale di diverse comunità straniere sul territorio italiano ha già prodotto un patrimonio di esperienze su cui lavorare. La novità attuale riguarda soprattutto l’emergenza umanitaria e le questioni di ordine pubblico, ma è prevedibile che sul medio e lungo termine le comunità straniere si infoltiranno e aumenteranno di diversità, contribuendo a rinnovare, soprattutto sul piano pedagogico, gli studi sul passaggio dalla prospettiva multiculturale all’intercultura. Definire un ambiente, una società o una scuola come multiculturali vuol dire prendere atto dello stato di cose effettivo, in cui siano presenti culture diverse, le quali possono condividere uno spazio, anche in assenza di integrazione reale; l’intercultura è piuttosto l’attiva costruzione di relazioni tra queste culture, la realizzazione di processi integrativi e comunicativi, al fine di raggiungere una convivenza significativa.
È bene allora provare a tracciare un breve quadro della situazione, partendo dalle comunità straniere già presenti da lungo tempo sul territorio italiano. In base alla distribuzione, si nota innanzitutto che ogni zona ha caratteristiche specifiche, rendendo difficile tracciare linee generali del fenomeno: in ogni regione vi sono percentuali diverse di presenza straniera, e di etnie diverse che interagiscono ognuna a proprio modo con la comunità locale. La maggiore concentrazione di comunità straniere al Nord e al Centro rispetto al Sud, per altro da più tempo, ha favorito uno sviluppo più avanzato di metodi pedagogici volti all’integrazione, mentre nelle regioni meridionali prevale l’approccio solidaristico succitato.
Nel citato Rapporto del Ministero della Pubblica Istruzione 2001, il lavoro di ricerca svolto sul tema ha evidenziato alcuni problemi principali dell’integrazione, tutt’ora validi, se non accentuati. Innanzitutto, la lingua: ostacolo primario, costituisce la prima barriera all’interazione tra gli studenti italiani e i loro compagni stranieri appena entrati in classe. Spesso gli studenti stranieri non sanno che poche parole, talvolta nessuna, e la stessa difficoltà riguarda i docenti e i compagni italiani, che non riescono a comunicare efficacemente. Di conseguenza, gli alunni stranieri tendono a isolarsi e a non entrare facilmente in circoli amicali. Tuttavia questo particolare problema si risolve, in genere, con relativa velocità, quanto più docenti e studenti italiani si sforzano di scambiare contatti e parole, e gli stranieri di aprirsi alla comunicazione nei termini più semplici. L’integrazione inizia quando la comunicazione si allarga dal contesto prettamente scolastico e investe le altre attività quotidiane.
Più grave e radicato è il problema dei pregiudizi,spesso basati su stereotipi e una scarsa informazione; questi costituiscono un ostacolo su cui devono intervenire tutti i soggetti coinvolti nel processo educativo, ossia i docenti, i genitori e gli stessi studenti, in sinergia. La comunicazione è essenziale, perché il pregiudizio può venire tanto dagli italiani, quanto dagli stranieri, soprattutto dalle famiglie: alcune famiglie italiane possono essere restie a mandare i propri figli in classi con alunni di altri Paesi, mentre alcune famiglie straniere tendono a evitare contatti con gli italiani per conservare le proprie radici culturali. Non è improbabile che vi siano docenti incapaci di superare talune idee preconcette, mentre sembra inferiore l’incidenza negli studenti, che dimostrano in linea di massima una maggiore flessibilità.
A ciò si aggiunge la possibile incomprensione nei rapporti: gesti che sono normali e quotidiani in una cultura, possono essere considerati offensivi in un’altra; determinati comportamenti, dettati dalla vita in famiglia e nella propria comunità di appartenenza, se non contestualizzati possono generare attriti e situazioni anche spiacevoli. I docenti, in particolare, hanno il non facile compito di tenere conto del bagaglio di situazioni personali che ogni alunno, tanto italiano quanto straniero, porta sempre con sé e da cui è influenzato nella quotidianità scolastica ed extrascolastica. Il lavoro di mediazione culturale inizia perciò nella stessa scuola, per esempio nella ricerca di soluzioni condivise su questioni di natura religiosa, come le feste, la considerazione da dare a determinati riti, e così via.
Non si può prescindere, infine, dal problema per eccellenza dal punto di vista amministrativo, ovvero la disponibilità di risorse. Se anche i rapporti tra i soggetti coinvolti sono di apertura e comunicazione, se la competenza dei docenti incontra la disponibilità delle famiglie nell’organizzazione di attività costruttive, se i pregiudizi sono tenuti “a bada” e l’ambiente scolastico è generalmente favorevole ai processi di integrazione, l’ostacolo delle risorse è sempre presente. Senza risorse adeguate, tanto economiche quanto logistiche, l’attività scolastica ne risulta depauperata. Il coinvolgimento degli Enti locali e, quando possibile, del settore privato, è un tassello molto importante per la realizzazione di progetti e iniziative. Gite scolastiche, recite, incontri, visite ai beni culturali ecc., sono tutte possibilità di creare canali di comunicazione interculturale, che richiedono l’impegno di numerosi altri soggetti, mossi innanzitutto dalla volontà politica di agire per l’integrazione.
Come in ogni situazione educativa, ai problemi corrispondono opportunità e rischi. L’apertura alla diversità, offerta dalla natura stessa della multiculturalità, costituisceuna uscita dalla propria “zona di conforto”, da ciò che viene ritenuto sicuro e forse scontato, per incontrare l’altro, con le sue caratteristiche e diversità. Implica accettazione, rivalutazione delle proprie credenze, rivisitazione dei propri limiti, per abbandonare visioni etnocentriche e relativizzare il proprio punto di vista sul mondo. Relativizzare, è bene specificarlo, non vuol dire accettare passivamente, bensì riconoscere nella diversità una risorsa, una possibilità da valorizzare, non un ostacolo o un problema da eliminare. Aprirsi alla diversità significa scovare nelle altre culture ciò che vi è di simile alla nostra e a tutte le altre, per trovare il fondamento umano comune a tutte le persone, e al tempo stesso vedere un modo differente di rapportarsi a queste basi comuni. Strettamente correlato a ciò, sia come risultato che come premessa, è lo sviluppo della flessibilità mentale:l’apertura comporta solidarietà, che a sua volta comporta la disponibilità a lavorare insieme, a risolvere problemi, a unire conoscenze, idee ed energie per conseguire obiettivi di interesse comune. Il contatto tra culture diverse, in questo senso, diminuisce le resistenze e le rigidità mentali, contribuendo a migliorare il modo di pensare e di agire degli individui, nei rapporti, nel lavoro e nei giudizi. Ecco allora offrirsi l’arricchimento umano e culturale:considerabile come il “fine ultimo” dell’educazione, comporta l’acquisizione di punti di vista nuovi, concezioni diverse da quelle che hanno influenzato la propria formazione, prospettive anche molto lontane da cui intendere i rapporti con il mondo. Un patrimonio di idee, gesti, nozioni e modi di essere e di comportarsi, che ampliano l’orizzonte della conoscenza, rivalutando il proprio bagaglio culturale e umano alla luce di quello altrui.
I rischi che invece si corrono, nell’eterogeneità dei risultati, riguardano la percezione negativa della diversità, che genera la diffidenza: una chiusura alimentata da presunte conferme ai propri pregiudizi, o persino creata ex novo dal contatto con realtà che si rivelano diverse da come si erano immaginate, facendo preferire una salvaguardia talvolta eccessiva della propria identità, al tentativo di capire motivi e concezioni diverse. Questo, sempre, tanto da parte italiana, con la percezione dell’altro come un “invasore”, quanto da parte straniera, con l’imposizione di divieti ai figli di esporsi all’influenza della cultura occidentale (arrivando a eccessi anche brutali, di cui si hanno spesso notizie sui media).
Anche l’etnia di appartenenza degli allievi può fare la differenza nella percezione dei genitori, così come dei docenti, portando per esempio al rifiuto verso alcune etnie specifiche. Immaginando una linea ai cui estremi siano poste, rispettivamente, la comunità straniera meglio accettata e quella meno desiderata, nel primo caso troviamo quelle etnie che non tendono a creare difficoltà nei rapporti con la comunità locale (quali siano, dipende dai luoghi e dai rapporti che si sono instaurati, dal tempo che è passato e così via); nel secondo caso, se interrogate, le persone di ogni luogo danno quasi sempre la stessa risposta: le comunità nomadi. Il nomadismo è infatti percepito come incompatibile con lo stile di vita generalmente più diffuso, che si risolve nella vita stanziale. I risultati della ricerca e dei sondaggi evidenziano come, tanto fra i genitori quanto fra gli insegnanti, la presenza di alunni nomadi in classe sia vista in modo quasi esclusivamente negativo.
Un rischio non strettamente relazionato alla multiculturalità, ma da questa possibilmente accentuato, è la creazione di rapporti complicati:un problema che riguarda in particolare docenti e genitori, dovuti alla differenza di percezione tra questi soggetti su obiettivi da raggiungere e lavoro da svolgere in aula. Spesso può capitare che i genitori abbiano idee differenti, basate su proprie convinzioni, su come dovrebbe essere svolto un certo tipo di attività, o come vadano impostate alcune questioni didattiche, sulle quali i docenti hanno una concezione professionale derivata dallo studio e dalla pratica che portano, in molti casi, ad adottare metodi il cui funzionamento può apparire oscuro alle famiglie. Ciò crea una divisione tra genitori e insegnanti che può portare a conseguenze drastiche, dal ritiro dei figli da una determinata classe o istituto scolastico, fino a casi estremi di scontro violento, saliti alla ribalta nei media soprattutto in tempi recenti.
In conclusione
Nel totalitarismo l’educazione di massa si estende dalle sue agenzie canoniche, ossia la scuola e la famiglia, per diffondersi nella società civile e occupare spazi e tempi ulteriori. Non si basa sullo sviluppo delle singolarità, delle specificità individuali, ma sull’adesione a stili di vita condivisi, culture omologanti e organizzazioni che permettono di controllare le masse. Con la Seconda guerra mondiale e la sconfitta del nazifascismo, e in seguito con la contrapposizione tra blocchi geopolitici durante la guerra fredda, le impostazioni educative dei regimi totalitari hanno subìto una svalutazione e una critica negativa senza appello. Non vi sono dubbi che questa attenzione pervasiva alla totalità della vita individuale sia culturalmente povera e strategicamente fallimentare, autoritaria, impositiva e conformistica; l’organizzazione delle attività extrascolastiche è in effetti il metodo più efficace per inquadrare la popolazione in un progetto unitario di Stato che diventa al tempo stesso una comunità omogenea. Ma bisogna anche rilevare l’importanza di un’educazione estesa oltre le sue agenzie formali, come un problema centrale nella società di massa anche in ambito democratico: l’estensione cioè del momento educativo a ogni esperienza di vita, per cui lo sviluppo individuale e personale trova nel proprio contesto di appartenenza un terreno fertile, una società educante dove ciascuno trovi strumenti e possibilità di migliorarsi e di formarsi, contribuendo al miglioramento della società stessa. I totalitarismi hanno percepito il problema, dandovi però risposte coercitive e brutali. Per questo risalta oggi la questione di una scuola multiculturale che trovi nuovi modi di implementare il principio di inclusione, attraverso pratiche di intercultura dove alla situazione di fatto, data dalla convivenza di differenti culture su di uno stesso territorio, si aggiunga una azione consapevole di costruzione del dialogo civile e della convivenza, per rendere la scuola uno dei terreni fertili per la società educante aperta e inclusiva di cui si ha necessità, contro le nuove spinte all’identitarismo comunitario24 e alla chiusura.
Bibliografia
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- F. Basaglia, Conferenze brasiliane, Centro di documentazione, Pistoia 1984 (riedito a cura di F. Ongaro Basaglia e M. G. Giannichedda, Raffaello Cortina Editore, Milano 2018)
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- Id., Alla eterna ricerca della buona scuola, in Historia Magistra: rivista di storia critica, n. 18/2015, Franco Angeli
- F. Cambi, Le pedagogie del Novecento, Laterza, Roma-Bari 2006
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- R. Finzi, La cultura italiana e le leggi antiebraiche del 1938, in Studi storici: rivista trimestrale dell’Istituto Gramsci, n. 4/2008, Carocci, Roma
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- G. Gentile, Sommario di pedagogia come scienza filosofica, 2 voll., Le Lettere, Firenze 2003
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- C. Gubbini, “Così i fascisti insegnavano il razzismo a scuola”, La Repubblica 25 gennaio 2015
- A. Hitler, Mein Kampf, trad. it. a cura di V. Pinto e A. Cambatzu, Mimesis, Milano 2017
- N. K. Krupskaja, Scritti di pedagogia, trad. it., Edizioni Progress, Mosca 1978
- A. S. Makarenko, La pedagogia scolastica sovietica, trad. it., Armando Editore, Roma 2009
- I. Palmieri (a cura di), Educare all’odio. L’antisemitismo nazista in tre libri per ragazzi, Cierre Edizioni 2018
- C. Sciuto, Non c’è fede che tenga. Manifesto laico contro il multiculturalismo, Feltrinelli 2018
- Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1967
- A. I. Solženicyn, Arcipelago Gulag, trad. it., Mondadori, Milano 1974
- G. Spadafora (a cura di), Giovanni Gentile. La pedagogia, la scuola, Armando Editore, Roma 1997
- L. Volpicelli, Storia della scuola sovietica, La Scuola, Brescia 1950
Documenti
- Ministero della Pubblica Istruzione, Le trasformazioni della scuola nella società multiculturale, 2001
- Sezione I – La dimensione e la natura del fenomeno (https://archivio.pubblica.istruzione.it/mpi/pubblicazioni/2001/sez1_multi01.pdf);
- Sezione II – Il dibattito sul tema della multiculturalità nella scuola italiana (https://archivio.pubblica.istruzione.it/mpi/pubblicazioni/2001/sez2_multi01.pdf)
- Carta della scuola (http://www.biblioarti.beniculturali.it/opencms/multimedia/BollettinoArteIt/documents/1410785833361_02_-_Carta_della_scuola_p._217.pdf)
- Regio Decreto 6 Maggio 1923 n. 1054 (http://www.territorioscuola.com/download/Regio_Decreto_6_Maggio_1923_n_1054_(Riforma_Gentile).pdf)
Note
1 Si veda il suo Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2009.
2 Si consiglia, tra gli altri, F. Cambi, Le pedagogie del Novecento, Laterza, Roma-Bari 2006.
3 Il primo dei provvedimenti, sulla scuola media di primo e secondo grado, è il Regio Decreto 6 Maggio 1923 n. 1054, consultabile in rete in formato pdf:
http://www.territorioscuola.com/download/Regio_Decreto_6_Maggio_1923_n_1054_(Riforma_Gentile).pdf
4 C. Betti, L’opera nazionale Balilla e l’educazione fascista, La Nuova Italia, 1983.
5 Consultabile in rete in formato pdf all’indirizzo:
http://www.biblioarti.beniculturali.it/opencms/multimedia/BollettinoArteIt/documents/1410785833361_02_-_Carta_della_scuola_p._217.pdf
6 Si vedano: C. Betti, Alla eterna ricerca della buona scuola, in Historia Magistra: rivista di storia critica, n. 18/2015, Franco Angeli (consultabile online all’indirizzo: https://www.historiamagistra.it/wp-content/uploads/2016/03/18-2015editoriale.pdf); e R. Finzi, La cultura italiana e le leggi antiebraiche del 1938, in Studi storici : rivista trimestrale dell’Istituto Gramsci, n. 4/2008, Carocci.
7 Si consiglia in merito Giovanni Gentile. La pedagogia, la scuola, a cura di G. Spadafora, Armando Editore, Roma 1997.
8 Cfr. G. Gentile, Sommario di pedagogia come scienza filosofica, 2 voll., Le Lettere, Firenze 2003; Politica e cultura, Le Lettere, Firenze 1991. Mi permetto inoltre di rimandare al mio articolo Estensione o comunicazione? Analisi di un contributo di Paulo Freire al processo teorico-pratico dell’educazione comunicativa, in Rivista La Famiglia 50/260 (2016), La Scuola/Studium, Brescia, in cui dedico la parte finale a una comparazione tra alcune idee di Freire e Gentile.
9 Di cui è disponibile un’edizione critica di grande pregio a cura dell’Associazione “Free Ebrei”, in due volumi, a cura di V. Pinto e A. Cambatzu, edito da Mimesis nel 2017.
10 I. Palmieri (a cura di), Educare all’odio. L’antisemitismo nazista in tre libri per ragazzi, Cierre Edizioni 2018.
11 Si veda l’articolo “Così i fascisti insegnavano il razzismo a scuola” di Cinzia Gubbini, su La Repubblica 25 gennaio 2015, corredato da una galleria di immagini tratte da libri di testo, manifesti e fotografie dell’epoca, consultabile sul sito del quotidiano:
http://www.repubblica.it/scuola/2015/01/25/news/cos_i_fascisti_insegnarono_il_razzismo_a_scuola-105744475/
12 L. Volpicelli, Storia della scuola sovietica, La Scuola, Brescia 1950.
13 N. K. Krupskaja, Scritti di pedagogia, Edizioni Progress, Mosca 1978.
14 Si consiglia A. S. Makarenko, La pedagogia scolastica sovietica, Armando Editore, Roma 2009.
15 Si veda l’art. 124 della Costituzione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche del 1936: “Allo scopo di assicurare ai cittadini la libertà di coscienza, la Chiesa nell’URSS è separata dallo Stato e la scuola dalla Chiesa. La libertà di praticare culti religiosi e la libertà di propaganda antireligiosa sono riconosciute a tutti i cittadini.”
16 Durante la seconda guerra mondiale, tuttavia, il regime staliniano fermerà la repressione religiosa e permetterà alla Chiesa ortodossa di ricostituire il Patriarcato, abolito da Pietro il Grande, al fine di rinfocolare i sentimenti di difesa spirituale della nazione. Il cambio di politica religiosa si dovrà a vari fattori: il risultato del censimento del 1938, in cui due terzi della popolazione rurale e un terzo di quella urbana si era dichiarata credente; di conseguenza, i rischi legati alla propaganda di Hitler per la “difesa della fede” contro il bolscevismo ateo; le possibilità offerte dalla riconciliazione per avere influenza nei Balcani e in Polonia (qui attraverso l’apertura ai cattolici), nonché nei rapporti con l’occidente, specie con il mondo anglosassone, molto sensibile alla questione religiosa in URSS. Fermo restando la separazione tra Stato e Chiesa, gli ortodossi avranno un seggio consultivo nel Consiglio dei Commissari del Popolo, in cambio della dichiarazione di lealismo alla patria socialista. Si veda L. Volpicelli, cit., pag. 253 e seguenti.
17 Fulcro di questa interpretazione è la “Parte speciale” del Codice penale della RSFSR, introdotta nel 1934, alla vigilia delle cosiddette “grandi purghe” staliniane. Secondo lo scrittore dissidente A. I. Solženicyn, in base all’articolo 58, nello specifico, era possibile bollare come controrivoluzionaria ogni attività condotta dai cittadini sovietici (si veda Arcipelago Gulag, Mondadori).
18 Si veda A. Castaldi, La scelta interculturale della scuola italiana, 2016 (https://www.educare.it/j/attachments/article/3229/2016_pp.24-28_Castaldi_La%20scelta%20interculturale%20della%20scuola%20italiana.pdf)
19 Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1967.
20 Il cui frutto più importante è senza dubbio la Legge 13 maggio 1978, n. 180 “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”, G. U. 16 maggio 1978, n. 133. Si consiglia anche F. Basaglia, Conferenze brasiliane, Centro di documentazione, Pistoia 1984 (riedito quest’anno da Raffaello Cortina Editore, a cura di F. Ongaro Basaglia e M. G. Giannichedda, in occasione del quarantennale della Legge).
21 Basti citare le principali norme per questo percorso: Legge 30 marzo 1971, n. 118, “Conversione in legge del D.L. 30 gennaio 1971, n. 5 e nuove norme in favore dei mutilati ed invalidi civili”; Relazione conclusiva della Commissione Falcucci concernente i problemi scolastici degli alunni handicappati (1975); Legge 4 agosto 1977, n. 517, “Norme sulla valutazione degli alunni e sull’abolizione degli esami di riparazione nonché altre norme di modifica dell’ordinamento scolastico”; Legge 5 febbraio 1992, n. 104, “Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”; Dichiarazione di Salamanca (UNESCO 1994); Legge 8 ottobre 2010 , n. 170, “Nuove norme in materia di disturbi specifici di apprendimentoin ambito scolastico”; Direttiva Ministeriale del 27/12/2012, “Strumenti d’intervento per alunni con Bisogni Educativi Speciali (BES) e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica”; Legge 13 luglio 2015, n. 107, “Riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione e delega per il riordino delle disposizioni legislative vigenti”.
Di particolare interesse è l’evoluzione del linguaggio, dall’iniziale termine “handicappato” all’attuale “persona con disabilità”, nonché l’inclusione tra i BES dello “svantaggio socio-economico, linguistico, culturale”. Tutto ciò si contrappone in modo assoluto e irriducibile all’idea nazi-fascista della “purezza” razziale e culturale.
22 A proposito di linguaggio, è tristemente nota l’espressione unwertes Leben, ossia “vite prive di valore”, con cui il regime nazista etichettava persone con disabilità, malattie mentali, difficoltà di apprendimento, deformità, o appartenenti a specifici gruppi etnici, sociali e culturali, dagli ebrei ai nomadi, dagli omosessuali ai comunisti, eccetera. Si consiglia in merito H. Friedlander, Le origini del genocidio nazista, trad. it. Editori Riuniti, Roma 1997.
23 Ministero della Pubblica Istruzione, Le trasformazioni della scuola nella società multiculturale, 2001, consultabile online ai seguenti indirizzi: Sezione I – La dimensione e la natura del fenomeno (https://archivio.pubblica.istruzione.it/mpi/pubblicazioni/2001/sez1_multi01.pdf); Sezione II – Il dibattito sul tema della multiculturalità nella scuola italiana (https://archivio.pubblica.istruzione.it/mpi/pubblicazioni/2001/sez2_multi01.pdf)
24 Si segnala a tal proposito il recentissimo saggio di C. Sciuto, Non c’è fede che tenga. Manifesto laico contro il multiculturalismo, Feltrinelli 2018, in cui l’autrice sottolinea i pericoli di politiche multiculturali lasciate al livello di mera convivenza tra identità a “compartimenti stagni”, in cui un malinteso rispetto delle diversità culturali offre il fianco al mantenimento di chiusure identitarie dannose per tutti i soggetti coinvolti. In particolare, è la laicità a essere proposta come terreno di valori comune da costruire tra le differenti culture, al fine di favorire la mescolanza e il cambiamento della società.