Un ruolo ‘autopedagogico’ per gli intellettuali: Paulo Freire sulla resistenza culturale all’ideologia dominante nel solco di Gramsci
Pubblicato in “Il Nodo” (Falco Editore), supplemento al n. 50 (dicembre 2020).
- Alcune premesse filosofiche dell’educazione freiriana
- Dominazione ideologica e resistenza
- Sapere scientifico e sapere popolare
- Neocolonialismo culturale
Alcune premesse filosofiche dell’educazione freiriana
Paulo Freire è stato un pedagogista dal pensiero politico-filosofico alquanto complesso. La sua concezione di educazione non si è mai limitata (se si può parlare di limiti in merito) a questioni strettamente didattiche e organizzative, inserendo queste in una weltanschauung democratica radicale, in cui l’educando e l’educatore lavorano insieme attorno all’oggetto del conoscere, crescendo e influenzandosi mutualmente attraverso il dialogo. Tutta la critica all’educazione bancaria è improntata alla mancanza di dialogo, ossia a una visione antidialettica della relazione educativa, che comporta una gerarchia non solo dei ruoli, ma anche del valore della conoscenza, tra l’educatore che sa e l’educando che non sa, tra il depositario della conoscenza e il ricevitore di questa, intendendo perciò l’istruzione come pura trasmissione unidirezionale del sapere. La critica verte pertanto sulla necessità di superare questa visione antidialettica e tutta l’impostazione gerarchica che comporta, in senso antiautoritario per raggiungere l’emancipazione culturale e sociale.
In questa weltanschauung convergono, come è intuibile, molte concezioni e interpretazioni filosofiche e politiche: dal cristianesimo al marxismo, dalle idee di Rousseau alla dialettica hegeliana, dal rapporto tra educazione e democrazia come inteso in Dewey a questioni di emancipazione culturale e sociale tra colonizzatori e colonizzati e così via, la cui disamina accurata è stata oggetto di studi molto accurati1. In questa sede, è interessante cogliere un aspetto particolare, l’attenzione dedicata da Freire al pensiero politico di Gramsci sulla questione del ruolo degli intellettuali nel rapporto conflittuale tra l’ideologia dominante e le culture subalterne; l’intellettuale, secondo Freire, in quanto tale è certamente depositario di conoscenze approfondite, spesso precluse alle masse popolari, ma è altrettanto sprovvisto di quelle sensibilità ed esperienze che solo un rapporto vivo e ravvicinato con quelle stesse masse può fornirgli sui problemi sociali da affrontare. In ciò, il pedagogista sposa in pieno le famose idee gramsciane sull’intellettuale organico; al contempo, trasporta il problema politico anche sul piano pedagogico, e a mio parere autopedagogico, per il ruolo stesso dell’intellettuale: nel rapporto con le masse, è proprio l’intellettuale a dover apprendere il più possibile dal popolo, uscire da una condizione di studio scientificamente “asettica” e prendere parte al movimento reale della lotta per l’emancipazione. Uno dei grandi errori del movimento operaio internazionale, nel corso del Ventesimo secolo, è stato quello di delegare a una avanguardia il compito di dirigere le spinte rivoluzionarie provenienti dal basso, con il risultato di ottenere politiche decisioniste, volontariste, affidate a gruppi o individui ritenuti depositari della giusta visione delle cose. Ma la contropartita a ogni possibile successo è sempre stata la lontananza dell’avanguardia dal popolo, con il rischio di perdere contatto sensibile e trasformare le spinte dal basso in dirigismo dall’alto. Per questo gli intellettuali hanno un compito preliminare: entrare nel movimento reale per condurre la rivoluzione emancipatrice con il popolo, non sopra di esso.
In questo riecheggia anche Mao, altro autore caro a Freire per la visione politica radicata nel contesto di un paese del cosiddetto Terzo Mondo e, almeno sul piano teorico, critico di molte cristallizzazioni ideologiche in seno al movimento rivoluzionario internazionale. Ma anche, come si vedrà, Amílcar Cabral, il quale invitava gli intellettuali delle città a unirsi agli strati subalterni e poveri della popolazione, al fine di costruire una nuova nazione indipendente anche sul piano culturale. La rivoluzione, in qualunque senso la si voglia intendere (come indipendenza da potenze straniere, come sovvertimento dell’ordine costituito, come palingenesi, ecc.), è in sé un’occasione pedagogica, un momento fortemente educativo di apprendimento politico collettivo, in cui gli intellettuali svolgono un ruolo di orientamento tanto più efficace quanto più sono coinvolti nei processi in atto. La conoscenza di ciò che si trova al di là di se stessi e del proprio sapere è peraltro ribadita nei riferimenti a Mariátegui; si può dire che si tratti di una educazione attraverso la rivoluzione, in modo simile a come Dewey intendeva una educazione attraverso la democrazia2: prima di essere un passo per la rivoluzione democratica, è soprattutto un’azione culturale che si svolge nel flusso stesso degli eventi.
Dominazione ideologica e resistenza
Come approfondimento di temi inerenti alle concezioni politico-filosofiche di Freire, in particolare nel campo delle idee dominanti, della razionalità di produzione che avanza anche nella cultura e perciò diventa l’ideologia che plasma una società ingiusta, si propongono di seguito alcuni brani delle parole dirette di Freire, tratti da Por uma pedagogia da pergunta, il «libro parlato» (ossia una conversazione trascritta) realizzato da Paulo Freire con il filosofo Antonio Faundez nel 19843.
All’azione dell’ideologia dominante corrisponde sempre una serie di manifestazioni di resistenza culturale da parte delle classi oppresse: si tratta di un sapere popolare basato sulle pratiche quotidiane, dal sincretismo religioso alle forme di conservazione delle tradizioni. Citando Antonio Gramsci, Freire e Faundez tracciano una relazione tra il sapere popolare e il senso comune, la filosofia dei non-filosofi, appartenente all’uomo delle masse, il quale possiede una visione acritica del mondo eppure estremamente pratica, comprende profondamente la realtà che lo circonda pur non essendo un intellettuale. Al contrario, il ruolo dell’intellettuale non può prescindere dalla comprensione del senso comune e delle pratiche del sapere popolare, perché l’intellettuale che non si appropri di un tale sapere è destinato a rimanere distaccato dalle masse e quindi a non poter dare corpo alla sua teoria.
La separazione tra sapere popolare e sapere scientifico è uno dei problemi fondamentali della cultura sociale sin dall’antichità, dato che ognuno tende a negare valore all’altro, a scapito della ricchezza sociologica della globalità sociale; ma la scienza non può essere considerata al di fuori dei processi storici, la teoria non esiste di per sé e senza l’analisi della realtà storica non può trasformare nulla. Ogni sapere scientifico, ogni scienza sociale deve trasformarsi assieme alla realtà che studia, in quanto una teoria data come conclusa e assoluta non può agire sulla realtà. Per questo l’intellettuale non può pretendere di presentare la sua teoria trasformatrice a un popolo senza prendere parte alla vita di quel popolo, confrontando le sue idee con la pratica quotidiana del soggetto del cambiamento sociale: il lavoro deve essere fatto con le classi subalterne, non su di esse.
Ciò diventa tanto più evidente quando il discorso prende come esempio le esperienze di emancipazione delle ex-colonie portoghesi in Africa. La figura di Amílcar Cabral, politico indipendentista della Guinea-Bissau e di Capo Verde, è emblematica: agronomo formatosi all’estero, torna nel suo paese per porre fine al periodo coloniale e parla apertamente della necessità per gli intellettuali di compiere un suicidio di classe, ossia di rinunciare a proteggere gli interessi della propria classe (la borghesia urbana) e di rivolgersi al popolo per comprenderne i bisogni e i linguaggi, in modo da affrontare la costruzione di un paese indipendente. Questo implica che il sogno di una società più giusta non deve essere inteso come un modello prestabilito, costruito da qualche intellettuale e proposto-imposto alle masse: il sogno lo si costruisce in maniera collettiva, in un processo che si rinnova costantemente, così come si rinnovano i soggetti che lo promuovono. In assenza di questo dinamismo, la pratica di un partito che si proponga come popolare finisce per irrigidirsi, acquisendo un atteggiamento autoritario verso le classi che pretende di salvare (in realtà, tenta solo di dirigerle verso i propri obiettivi).
Riflettendo sulle manifestazioni culturali di resistenza che le masse oppongono alle ideologie dominanti, Freire sostiene che:
la comprensione critica delle espressioni culturali di resistenza delle classi sociali oppresse è fondamentale per la strutturazione di piani d’azione politico-pedagogici. Queste espressioni culturali, che parlano della maniera di leggere la loro realtà e di come si difendono, devono stare al punto di partenza di quei piani. La mobilitazione popolare, che in sé implica il processo di organizzazione, si realizza con più facilità quando si prendono in considerazione quelle forme di resistenza popolare che in modo generale costituiscono ciò che chiamo gli “espedienti” degli oppressi. […] Nella mia esperienza in aree rurali e urbane, non solo brasiliane, ho appreso a percepire, nelle difese che il corpo degli oppressi finisce col creare nelle situazioni più drammatiche, come esso scaltramente si immunizza. È una specie di “vaccinazione” certo precaria, ma senza la quale non resterebbe più niente. Nel dominio più diretto della cultura, senza che si pretenda di allontanare la difesa del corpo da questo dominio, gli espedienti diventano necessari nella lotta contro l’invasione della cultura dominante. È interessante osservare come culti afro-brasiliani hanno “accettato” di assimilare i santi della tradizione cattolica per pura difesa. Credo ancora che nel dominio del linguaggio, al livello di sintassi e di semantica, gli oppressi si affermano e si difendono in maniera scaltra. A volte, dicendo una cosa, ne stanno affermando un’altra: è la forma di difendere la loro verità. Per questo sono convinto che, nella misura in cui penetriamo nelle resistenze per comprenderle, conoscendo meglio le espressioni culturali e il linguaggio delle classi dominate, riusciamo a percepire anche come l’ideologia dominante si incarna, quali sono i vuoti che essa non è riuscita a riempire o che ha riempito solo in apparenza proprio in funzione della resistenza delle classi popolari.4
Per questo Freire insiste su una pedagogia della domanda radicale, vissuta nella scuola o nella lotta politica, sostanzialmente democratica e antiautoritaria, nella cui pratica non c’è posto per la dicotomia tra sentire il fatto e apprendere la sua ragion d’essere. La sua critica alla scuola tradizionale non si esaurisce nelle questioni tecniche o metodologiche, nelle relazioni importanti tra educatore ed allievo, ma si estende alla critica dello stesso sistema capitalista.
Sapere scientifico e sapere popolare
Faundez, dal canto suo, spiega come il sapere scientifico possa rendere autoritari in virtù del potere che conferisce. Gli intellettuali che si appropriano di questo potere, sminuiscono il sapere non scientifico e il sapere popolare: il senso comune del popolo si mostra come un non-sapere, perciò come un non-potere. E questo disprezzo per il sapere popolare allontana gli intellettuali dalle masse, quando invece è una «ricchezza sociologica fondamentale per qualunque atto politico» di trasformazione della società. Se un intellettuale progressista vuole unirsi alle masse, deve rispettare questo sapere e cercare di appropriarsene; questo gli permetterà di proporre il suo sapere scientifico, ricevendo a sua volta la sensibilità delle masse, le quali potranno appropriarsi del suo sapere trasformandolo. Il sapere popolare è legato alla nozione di senso comune, gramscianamente inteso.
Secondo Freire, il problema di separare i due tipi saperi è lo stesso della separazione tra una prospettiva elitaria e una prospettiva popolare. Esiste sempre il rischio, anche in una lotta sociale progressista, di diventare elitari nella convinzione che il rigore scientifico sia l’unica giusta soluzione delle contraddizioni sociali. L’altro rischio, in contrapposizione, è quello del basismo5, con una negazione completa della rigorosità, pertanto nulla di ciò che è scientifico serve a qualcosa, tutta la rigorosità è «puro intellettualismo blaterante». Se nella prima posizione c’è un’enfasi sulla teoria, nella seconda è solamente la pratica a esser valida, ma l’uno non è il contrario positivo dell’altro. Erroneamente, per Faundez, si considera la vita concettuale come la realtà, al posto della vita concreta; rivoluzione significa invece una nuova concezione della scienza come mediatrice della comprensione e trasformazione della realtà. Sulla scia di queste considerazioni, Freire riflette sulla prassi e sul sogno dell’intellettuale, che è politico-sociale: per realizzare tale sogno si deve lavorare sulla connessione tra il progetto e le circostanze storiche del contesto, in cui le condizioni oggettive e soggettive sono in relazione dialettica. La realizzazione del sogno richiede dal canto suo che l’intellettuale approssimi quanto più possibile i suoi discorsi alla sua pratica, alla ricerca di un livello ragionevole di coerenza.
Una condizione fondamentale, nella discussione del ruolo dell’intellettuale in rapporto al suo sogno, è che il sia un sogno possibile da realizzare e che la realizzazione sia da perseguire nelle concrete condizioni in cui si trova. Alla fine non si realizza il sogno a partire da lui, in se stesso, bensì dal concreto in cui è collocato. Per questo è necessario comprendere il presente non solo come un presente costellato di limitazioni, ma anche come un presente di possibilità. È poi necessario intendere il sogno come una cosa che ha bisogno di un lavoro di costruzione, non come qualcosa di predefinito; la realtà storico-sociale è una cosa che si costruisce e non un qualcosa di già dato, come ho sostenuto anche in altre occasioni. Tra un numero infinito di domande – ancora una volta le domande – che mi devo sempre fare nel compimento e per il compimento del mio compito, non inteso come qualcosa di puramente individuale, una domanda sarà: con chi realizzo il mio sogno? Se nel domandarmi questo mi rifiuto di comprendere il significato più profondo di con chi, sembrerà che nel mio discorso resto tutt’al più al livello di per chi realizzo il sogno. E realizzare o tentare di realizzare il sogno in tali condizioni significa agire sulle e non con le masse popolari. In questo caso, insomma, se lavoro sulle e non con le classi popolari, contraddico il discorso rivoluzionario a proposito della creazione di una società giusta. Le classi lavoratrici, anziché essere considerate come agenti della concretizzazione del sogno e quindi come soggetti storici, passano a essere nel migliore dei casi beneficiarie della realizzazione del sogno. E questo non basta. In questo modo non importa la veemenza dei discorsi che faccio, non importa quel che annuncio, se lavoro semplicemente per le classi popolari e non con esse, divento ogni volta più elitario. Comincio ad ammettere che il sogno debba essere realizzato da quadri specializzati, competenti, generosi, eroici, il cui compito (giacché non possiamo realizzare la trasformazione da soli) sia quello di orientare le masse finché al momento stabilito si compia la trasformazione. In tale maniera, il sogno viene offerto alle classi popolari e lavoratrici, della cui realizzazione non partecipano come soggetti. Questa non è, in verità, la mia prospettiva. Quando mi domando con chi realizzare il sogno, rispondo: con le classi sociali dominate con le masse popolari e tutto coloro i quali, pur appartenendo a una classe diversa da quella dell’operaio, tentano di fare quel che Amílcar Cabral ha definito “suicidio di classe”.6
Il punto di partenza della trasformazione sociale sta nella comprensione delle classi popolari, immergendosi nelle acque storiche e culturali, nelle aspirazioni, nei dubbi, negli aneliti, nelle paure. Il ruolo dell’intellettuale acquista senso solo nella misura in cui questo si compie con le classi lavoratrici e non per esse.
Mi pare che quanto ho detto ha a che vedere con una osservazione che lessi tempo fa in un’opera di Mao, quando, riferendosi a talune incoerenze, taluni sbagli degli intellettuali, affermava che soltanto nella comunione e nella comunicazione con le masse popolari, nella prassi, era possibile superarli. Non posso capire un intellettuale che sogna una trasformazione radicale assumendo il suo ruolo, di qualunque tipo sia, lontano dalle classi popolari, prescrivendo loro la sua ricetta di governo e direzione. È chiaro però che se l’opzione dell’intellettuale è di preservare il sistema capitalista, attraverso meri e opportuni aggiustamenti, la sua coerenza starà nell’essere sempre esattamente sopra, dando l’impressione di essere per le classi popolari. Il suo ruolo sarà di perfezionare i meccanismi di riproduzione dell’ideologia dominante.7
Neocolonialismo culturale
Proseguendo in queste riflessioni politiche, i due interlocutori approfondiscono il tema della differenza e dell’identità, a partire da una considerazione di José Carlos Mariátegui8: l’idea chiave è che la conoscenza di se stessi passa attraverso la conoscenza degli altri, la comprensione dei propri segreti viene mediata dalla scoperta dei segreti altrui, tanto sul piano individuale quanto sul piano collettivo. Se la differenza, sostengono gli autori, è mediatrice dell’identità, bisogna sottolineare quanto forte sia la tendenza a eliminare le differenze pur di affermare un’identità, in particolar modo nell’ambito dello sviluppo dei moderni Stati-nazione. Esiste sempre un gruppo sociale che pretende di dare unità alla nazione, ma questa unità non concilia le differenze culturali, tentando invece di annullarle o ridurle per quanto possibile nella costruzione di una cultura nazionale. La ricchezza che la diversità sociale può portare alla nazione sarebbe fruibile se le diversità partecipassero insieme alla costruzione della nazione stessa, realizzando così l’unità attraverso le diversità, ma questo implicherebbe il superamento della concezione dello Stato moderno come conformazione a un modello culturale imposto dal gruppo dominante. Anche qui l’esempio africano è fondamentale: la fine del colonialismo comporta la scelta tra una politica di costruzione dell’indipendenza, tanto economica quanto culturale, e una politica di compromesso con gli ex-colonizzatori, ossia neocolonialista, per via dei mezzi a disposizione di questi per “aiutare” i nuovi cittadini, mantenendo su di essi un controllo latente. In questo secondo caso si mantiene viva una forma di scissione tra l’élite dominante e le masse popolari, come ai tempi della colonia, per cui il sapere detenuto dalla classe dirigente è in se stesso scientifico e superiore rispetto al sapere popolare; si tratta di un dominio ideologico per il quale le idee dell’élite vengono proposte come idee di tutta la nazione, privando di fondamento l’interazione con le manifestazioni culturali considerate inferiori. Faundez riprendere dunque Mariátegui: «viaggiamo all’estero non per scoprire i segreti degli altri, ma per scoprire il segreto in noi stessi», una frase in cui egli ricordava la sua partenza per l’Italia, che riassume molto bene le posizioni dei due interlocutori sull’importanza dell’Altro per la propria auto-conoscenza.
Propone così un quadro teorico che parte dalla Rivoluzione francese, in cui lo Stato moderno in quanto Stato-nazione si conforma all’esigenza autoritaria di un gruppo sociale che impone unità alla nazione, riducendo ed eliminando le differenze culturali che potevano esistervi. Ovvero, fin dalla formazione dello Stato moderno persiste la tendenza a raggiungere l’unità attraversol’annullamento della diversità, quindi dell’Altro, in quanto elemento che poteva arricchire l’unità. Tale concezione di Stato moderno ispira non solo gli Stati costituiti e strutturati dalle politiche conservatrici, ma orienta anche la strutturazione degli Stati progressisti, attraverso un’unità imposta da un gruppo sociale o culturale. Si respinge in tal modo l’unità attraverso la diversità, l’unità partecipativa delle differenze sociali e culturali che devono conformare lo Stato-nazione. Ciò tocca un punto essenziale, il problema di una cultura nazionale. E qui Faundez incalza Freire con una serie di domande su cosa sia una cultura nazionale, cosa sia un cultura popolare, quali condizioni storiche siano necessarie per costruire una nazione in cui le differenze possano costituirsi in quanto unità delle diversità, a partire dalle esperienze vissute in Africa.
Freire non ha dubbi sul fatto che sia questo il problema fondamentale dell’Africa nella sua lotta per l’indipendenza. Bisogna determinare se il nuovo Stato sia orientato a una reale indipendenza, oppure al mantenimento di una dipendenza neocoloniale. La scelta non è per nulla semplice: i vecchi colonizzatori dispongono di mezzi economici e politici sufficienti a fare pressioni sugli ex-colonizzati perché restino in una posizione di indipendenza apparente. In tale posizione, le espressioni culturali e la creatività continuano a essere minimizzate e considerate inferiori, come in epoca coloniale. La distanza tra le masse popolari nazionali e la piccola élite dominante locale, cui è delegato il potere metropolitano, rimane profonda:
Amílcar Cabral non solo affermò, ma visse quello che chiamava “suicidio di classe” esattamente per ingaggiare una lotta contro la perpetuazione del colonialismo. Un suicidio di classe da lui visto e inteso come l’unica maniera che gli intellettuali di una piccola borghesia africana (sottomessi allo sforzo di assimilazione della cultura e del potere delle classi dominanti metropolitane) avevano per contribuire in forma efficace alla lotta di liberazione del loro paese. Dice Cabral: “Per non tradire questi obiettivi – quelli della liberazione – la piccola borghesia ha una sola via: rafforzare la sua coscienza rivoluzionaria, ripudiare le tentazioni connaturate alla sua mentalità di classe, identificarsi con le classi lavoratrici, non opporsi allo sviluppo normale del processo della rivoluzione. Questo significa che, per svolgere pienamente il ruolo che le spetta nella lotta di liberazione nazionale, la piccola borghesia rivoluzionaria dovrà essere capace di ‘suicidarsi’ come classe per resuscitare nella condizione di lavoratore rivoluzionario, interamente identificato nelle aspirazioni più profonde del popolo cui appartiene. Questa alternativa – tradire la rivoluzione o suicidarsi come classe – costituisce il dilemma della piccola borghesia nel quadro generale della lotta di liberazione nazionale.”9 In verità, è impossibile pensare la questione culturale fuori da una prospettiva di classe, senza riferimento al potere di classe. È in funzione del potere di classe che la cultura egemone, esprimendo la posizione della classe dominante, intende se stessa come l’unica valida espressione reale della nazione. Il resto è inferiore, è brutto. Lo stesso accade, naturalmente, con il suo linguaggio, con la sua sintassi, considerata come l’unica esatta – il cosiddetto standard culturale – cui le classe lavoratrici devono semplicemente piegarsi. Queste considerazioni mi fanno ricordare cosa dicono Marx ed Engels nella Sacra famiglia: “la classe che impera materialmente nella società, impera anche spiritualmente”.10 Le sue idee sono le prevalenti nella società. Ma, oltre a far prevalere le sue idee, la classe dominante ancora tenta, attraverso il potere della sua ideologia, di far credere a tutti che le sue idee sono idee della nazione. Non sarebbe nel loro interesse dire la verità. Legata al potere economico e a quello politico, la cultura dominane tende a imporre a tutte le espressioni culturali la sua “superiorità”; per questo la decantata multiculturalità di certe società non esiste. Per avere realmente multiculturalità, sarebbe necessario che ci fosse una certa unità nella diversità. E l’unità nella diversità presuppone il mutuo rispetto delle differenti espressioni culturali che compongono la totalità.11
In una società che sperimenta differenze etnico-culturali, i movimenti interessati alla trasformazione rivoluzionaria devono necessariamente includere nel loro sogno la questione dell’unità nella diversità, e ciò non vale solo per la situazione africana, ma anche per quella latinoamericana:
Mi ricordo adesso di una delle mie conversazioni con Fernando Cardenal12 e, credo, con Ernesto Cardenal13 durante la mia prima visita al Nicaragua da poco liberato, quando mi sforzai di dare un contributo, per minimo che fosse, al suo popolo, che prendeva in mano la sua storia. Il tema principale di una di tali conversazioni fu esattamente il modo in cui si doveva comportare la Rivoluzione in relazione agli indios mesquitos. La mia posizione, come quelle di Fernando e di Ernesto, era che ci fosse necessità di rispettarli. La questione che si poneva non era di imporre loro l’alfabetizzazione in spagnolo, lingua che non parlavano, ma di incorporarli nella Rivoluzione attraverso progetti economici per la loro regione, cui unire progetti culturali dove trovasse spazio anche la questione della lingua. La Rivoluzione non avrebbe corso alcun rischio, come di fatto non ne corse, se avesse rispettato il creolo di formazione inglese che loro parlavano. L’unità nazionale doveva essere forgiata nelle diversità e non nell’imposizione, da cui sarebbe risultata una artificialità. Mi ricordo del mio discorso quando conversavamo senza divergenze sul tema. Sarebbe importante, dicevo io, che i giovani che andassero nell’area indigena si presentassero come rappresentanti della Rivoluzione, parlando di cosa si faceva nel paese nel campo dell’alfabetizzazione, lasciando chiaro che la Rivoluzione non voleva alfabetizzarli in spagnolo. Ciò che voleva era conversare con loro su se stessa e ascoltare cosa essi avevano da dirle, quali fossero i loro sogni e le loro speranze. Sono sicuro, dicevo io, che se si facesse qualcosa del genere, ci si guadagnerebbe di più. La mia posizione, però, non era quella di chi pensa o agisce per puta tattica. Ero e sono convinto che quello fosse un imperativo rivoluzionario. Insisto che una posizione come questa ha a che vedere con un compromesso rivoluzionario democratico davanti all’organizzazione e riorganizzazione della società. In una prospettiva autoritaria, al contrario, si decreta in nome della rivoluzione ciò che deve essere fatto.14
Il discorso verte poi sul problema della cultura nazionale e popolare, se questi due concetti siano o meno antagonisti e come potrebbero sfociare in un progetto unitario. Freire ritiene che per la classe dominante la cultura nazionale sia quel che fa parte del suo universo diidee, credenze, gusti. D’altro canto, le classi popolari non si riconoscono in molti degli aspetti considerati nazionali dalle élite; al contrario sono, in molti casi, l’espressione di un potere di classe che le considera inferiori. Si devono perciò reinventare criticamente la cultura e il linguaggio:
prendiamo quest’ultimo, che non può essere pensato al di fuori dei rapporti di classe, delle condizioni economiche e del potere: chi stabilisce che un certo modo di parlare è quello giusto, quello colto? Se ce n’è uno che è colto, ce n’è un altro che è incolto; a chi appartiene l’uno e a chi l’altro? Chi stabilisce che il linguaggio dei bambini del popolo è sbagliato, è carente? Chi parla dell’incapacità di astrazione, della mancanza di coerenza nel linguaggio delle classi popolari dominate? Tutto ciò è fatto da chi detiene il potere e in funzione di esso, cioè al servizio dei suoi interessi. Chi ha il potere economico marca e definisce chi non lo ha. Per questo le classi dominate possono marcare e definire le dominanti solo quando, prendendo loro il potere, lo reinventano. Pertanto mi sembra che la trasformazione del modo di produzione capitalista in socialista deve orientarsi anche verso la creazione di una nuova sintassi; in questo modo, a poco a poco, si passerebbe ad avere non più il linguaggio dei dominanti, con la sua grammatica quale strumento di potere, non più il linguaggio “sbagliato” dei dominati, considerato inferiore e illogico, bensì una specie di sintesi dialettica dei due, il superamento del dominio di un linguaggio sull’altro.15
Faundez riporta allora vari esempi di sviluppo produttivo che sono stati promossi come soluzioni di problemi in paesi africani, in merito principalmente alla meccanizzazione dei processi di produzione e conservazione del cibo e di altri prodotti, che richiedono energia e risorse. Se da un lato c’è la spinta a contrastare la malnutrizione, dall’altro si presenta il problema di rendere dipendenti i paesi che si vogliono aiutare. Una possibile soluzione si troverebbe appunto sul piano culturale, valorizzando le tecniche popolari di conservazione sviluppate localmente, secondo tradizioni che la meccanizzazione importata dall’estero tende a svalutare. Altri progetti, come la meccanizzazione dell’agricoltura, dureranno il tempo necessario, dopodiché lasceranno sul territorio macchinari (per esempio i trattori) che richiederanno energia e valuta estera per funzionare, in paesi che non potranno produrla. Da un lato, per Faundez, si pretende di introdurre tecnologie poco conosciute, senza chiedersi quali conoscenze possiedano i locali per poter risolvere i problemi di alimentazione; dall’altro si pretende di introdurre nuove coltivazioni come la soia o il mais, senza scoprire assieme a loro quale ne sia il grado di accettazione (culturale e fisica).
Questi esempi, secondo Freire, rivelano come persino tra le istituzioni mosse dall’intenzione di aiutare si ritrovi la presenza dell’ideologia autoritaria, che sopravvaluta la conoscenza scientifica e la tecnologia avanzata, mentre disprezza la sapienza popolare. Questa ideologia immunizza dal pensare che le classi popolari di qualsiasi paese abbiano appreso, nella loro pratica sociale, a sviluppare tecniche per la produzione e la conservazione degli alimenti; l’incompetenza della popolazione è considerata naturale. Inoltre si dimostra ancora una volta come le domande primarie si perdano, schiacciate dalla forza di risposte già presenti. Il progetto di aiuto allo sviluppo di questi popoli dovrebbe invece proporsi non solo di scoprire insieme a essi di cosa c’è bisogno, ma anche scoprire le forme tradizionali di soddisfare la richiesta. Soltanto in seguito è possibile proporre tecniche sviluppate da altre culture, tecniche semplici di cui il popolo può appropriarsi rapidamente. Pertanto tutto questo processo educativo deve cominciare a partire dalla conoscenza empirica condivisa dal popolo. Se taluni elementi culturali di rifiuto delle tecnologie, delle colture, persino di cure e medicinali, non vengono scoperti ed eliminati, valorizzando al contempo le conoscenze positive già in possesso della popolazione locale, diventa impossibile l’accettazione di risposte appropriate che vengono da fuori. Ed è in questo che consiste il compito fondamentale dell’intellettuale: nel comprendere e sintetizzare il sapere popolare con il sapere scientifico che già possiede.
Note
1Cfr. Gerhardt H. P., Arqueologia de um pensamento, in Gadotti M. (org.), Paulo Freire. Uma biobiliografia, Cortez Editora, São Paulo 1996, pp. 149-172.
2Si consiglia per approfondimento Santi M., Striano M., Oliverio S., Philosophical Inquiry and Education ‘through’ Democracy. Promoting Cosmopolitan and Inclusive Societies, in Scuola democratica, fascisolo 4, numero speciale 2019.
3Freire P., Faundez A., Por uma pedagogia da pergunta, Paz e Terra, Rio de Janiero 1985. Tutte le traduzioni dei brani proposti sono state da me realizzate sul testo della quarta edizione (1998). Ho selezionato per le citazioni dirette le sole parole di Freire, riassumendo le risposte di Faundez. I numeri di pagina dei brani rinviano al testo in formato pdf reperibile in rete, non avendo avuto la possibilità di consultare l’edizione originale cartacea.
4 Por uma pedagogia da pergunta, pag. 29 (pdf).
5 Teoria economico-sociale fondata sulle attività “orizzontali” di organizzazioni di base che agiscono direttamente sul territorio; tali attività sono particolarmente diffuse in Argentina, Brasile e Cile. Per estensione, diventa nel discorso di Freire il rifiuto verso la cultura “alta” e la sopravvalutazione delle capacità delle masse popolari.
6 Pag. 35 (pdf).
7 Pag. 36 (pdf).
8Intellettuale peruviano, tra i maggiori esponenti del marxismo latinoamericano. Cfr. Mariátegui J. C., Sette saggi di interpretazione della realtà peruviana, Massari Editore.
9 Amílcar Cabral, “A arma da teoria – Unidade e luta”, in Obras Escolhidas de Amílcar Cabral, Seara Nova, Lisboa 1976, v. 1, p. 212-13 (nota originale degli autori).
10 K. Marx e F. Engels, Ideología Alemana, D.F. Ediciones Vita Nuova, México, 1938, p. 75 (nota originale degli autori; cfr. L’ideologia tedesca, trad. it., Editori Riuniti, Roma 1958).
11 Pag. 46-47 (pdf).
12 Fernando Cardenal (1934) è un gesuita e teologo della liberazione nicaraguense, ministro dell’educazione durante il governo sandinista tra il 1984 e il 1990.
13 Ernesto Cardenal (1925), fratello di Fernando, è un poeta e sacerdote, conosciuto soprattutto per la sua opera di artista, ma anche come uno dei maggiori difensori della Teologia della Liberazione.
14 Ibid.
15 Pag. 50 (pdf).