Responsabilità collettiva e salute pubblica. Per una riflessione pedagogica sulla quarantena

Pubblicato in Etica, diritto, salute. Prospettive evolutive nello spazio globale, a cura di U. Comite e G. Tarantino, Edizioni Scientifiche Italiane, 2021.

  1. Pedagogia dell’emergenza
  2. Diritti e doveri come problema educativo
  3. Formazione del carattere

1. Pedagogia dell’emergenza

La situazione epidemiologica verificatasi nel 2020 ha mostrato diversi aspetti del comportamento collettivo di fronte alle emergenze sanitarie. Se, da un lato, l’improvvisa esplosione dei contagi ha costretto a un repentino blocco delle attività e delle relazioni, cui una parte della popolazione ha aderito in maniera disciplinata, dall’altro le difficoltà quotidiane nel momento della quarantena hanno evidenziato l’impreparazione a situazioni di emergenza sul piano culturale ed educativo. Le proteste per le misure disciplinari, l’aperta contestazione dei DPCM sul piano fattuale e giuridico, le accuse di “dittatura sanitaria”, fino alla nascita di un movimento negazionista su internet, sono elementi che ripropongono sul piano pedagogico la necessità di una riflessione sulla responsabilità collettiva, la consapevolezza del significato dell’emergenza, il recupero del concetto di dovere e persino, in ultimo, la formazione del carattere, al fine di riprendere la dimensione pubblica come orizzonte educativo in favore della convivenza tra individui.

Il diritto, è stato asserito, non è libertà assoluta, bensì convivere responsabilmente con gli altri in un’ottica di giustizia1. E il diritto di cittadinanza, legato all’appartenenza e alla convivenza sociale e territoriale, pone la questione della formazione del cittadino, della sua educazione e autoeducazione in quanto titolare di diritti e di libertà nella vita associata; la libertà, nel contesto della pandemia, entra necessariamente in rapporto con le limitazioni di provvedimenti sanitari adottati come misura d’emergenza. Ciò apre la strada alla possibilità di cogliere una spinta educativa nell’emergenza stessa, riassumibile nel fatto che, sul piano delle relazioni sociali e dei rapporti reali, l’esercizio dei propri diritti (civili, politici ecc.) è possibile in quanto si riconosce di essere titolari anche di doveri, verso gli altri, verso la società, verso se stessi.

Ossia, ogni cittadino deve sentirsi responsabile di fronte a tutti gli altri, comprendere che le proprie azioni non sono soltanto l’esercizio della propria libertà e dei propri diritti, ma anche una forza che influisce sulle libertà e i diritti di chiunque altro. Tale esercizio di libertà non si può esprimere in maniera assoluta, deve trovare una limitazione e questa è delineata dall’accettazione e dal riconoscimento dei doveri: tra di essi, quello di solidarietà dovrebbe essere imprescindibile per interpretare le necessità di seguire una condotta responsabile, in particolare nel contesto dell’emergenza sanitaria e delle contingenti misure di contenimento e profilassi restrittive. Al diritto di cittadinanza può essere così affiancato un dovere di cittadinanza nella sua propria fondazione, perché i cittadini sappiano riconoscersi, oltre che liberi e uguali, anche solidali tra esseri umani, investiti di doveri verso la società e la nazione, così come di diritti per le proprie individualità.

Questa prospettiva è palesemente contrastata da una parte dell’opinione pubblica attuale, che nella rivendicazione dei propri diritti è arrivata a denunciare una presunta incostituzionalità delle misure di emergenza, l’abuso di potere da parte delle istituzioni, l’incompetenza della gestione dell’emergenza sanitaria, fino a parlare di tentativi di instaurare governi autoritari, cogliendo nella necessità di misure straordinarie l’occasione per “scavalcare” la sovranità popolare e attuare piani economici nell’interesse di non meglio specificati soggetti occulti (in linea di massima stranieri). Le proteste e le sfide contro le misure restrittive sugli spostamenti e l’uso di dispositivi come le mascherine, congiunte ad altri atteggiamenti irresponsabili come gli esodi fuori dalle zone rosse, hanno contribuito ad aggravare la situazione epidemiologica, nonostante una larga parte della restante popolazione abbia invece accettato la necessità di adeguarsi e seguire le indicazioni delle autorità. È questo il segno di una profonda difficoltà educativa e pedagogica nella formazione del cittadino, dovuta a differenti fattori, non da ultimo la facilità di diffusione delle fake news in rete e la lentezza (scolastica ed extrascolastica, ossia sociale) nell’educare all’uso delle nuove tecnologie, al fine di contrastare i due nuovi tipi di analfabetismo, quello di ritorno e quello funzionale.

Più in generale, è divenuto evidente come il funzionamento stesso dello Stato e delle istituzioni sia, ormai da anni, divenuto oscuro e incomprensibile, tanto da vedere nell’intervento governativo un rischio di abuso, a prescindere dalla situazione. L’idea stessa di “dittatura sanitaria” ha in sé una natura complottista e pregiudizievole verso ogni assunzione di responsabilità collettiva, soprattutto se attuata tramite le istituzioni pubbliche; ma proviamo ad andare in fondo a questa idea, proviamo a vedere come una dittatura vera, non immaginata, possa mobilitare le risorse di un paese per affrontare un’emergenza di tipo sanitario.

Prendiamo ad esempio l’URSS, che nel corso dei suoi settant’anni di storia ha affrontato alcune epidemie molto pericolose2, riuscendo a superarle con quella stessa disciplina collettiva che valse alla superpotenza tanto la vittoria nel secondo conflitto mondiale, quanto la costruzione di un duraturo Stato totalitario. La sinergia tra governo, sistema sanitario, forze armate e KGB è stata la chiave per individuare e contenere la catena di contagi, sopperendo agli errori commessi soprattutto all’inizio delle emergenze, nonché ai disagi provocati dalle misure di profilassi adottate. In particolare, nel 1970 la costa del Mar Nero, meta turistica tra le più frequentate dai cittadini sovietici, è stata colpita dal colera nel periodo delle vacanze estive; l’errore fatto a livello locale è stato di diffondere senza adeguate contromisure la notizia della malattia: presi dal panico per gli annunci dati già sulle spiagge, i turisti si sono spostati in massa verso i luoghi di origine, facendo così espandere a macchia d’olio il contagio nel resto del Paese, fino a raggiungere la capitale e le altre grandi città. Il governo centrale ha reagito con l’immediata quarantena delle città costiere e dei luoghi di villeggiatura, divenuti i focolai più importanti, da cui era possibile uscire solo dopo accurati esami medici in laboratori mobili allestiti su treni e navi. La mobilitazione della marina militare, dell’esercito e di personale medico nell’ordine di migliaia, ha consentito di rafforzare i cordoni sanitari per il lockdown, estesosi nelle zone costiere fino al mese di novembre. La popolazione turistica, ritrovatasi chiusa nelle case e negli alberghi, non è stata comunque esente da comportamenti irresponsabili: diversi tentativi di fughe e di aggirare le restrizioni hanno creato difficoltà al sistema approntato per l’emergenza, finché il governo centrale non ha rassicurato sull’estensione del periodo di vacanze con conservazione del salario per tutti i turisti lontani da casa.

D’altro canto, non era certo la prima volta che le autorità sovietiche si ritrovavano ad affrontare epidemie di ogni genere. Già nella Russia zarista varie epidemie avevano funestato ampie zone del Paese, senza che ci fosse un sistema sanitario integrato per affrontarle; ancora alla fine della prima guerra mondiale, con la diffusione della famigerata “influenza spagnola” (responsabile di un numero di morti persino superiore a quello generato dal conflitto), tra le rivoluzioni del 1917 e la guerra civile del 1918-1921, la questione sanitaria era uno dei problemi più gravi e difficoltosi per il nuovo potere. La memoria ancora viva di varie ondate epidemiche spinse così verso la creazione di un servizio sanitario epidemiologico che sarebbe cresciuto negli anni fino a diventare, probabilmente, uno dei migliori al mondo nel corso del XX secolo3. Il principio seguito da subito fu di prevenire il più possibile le epidemie, anziché affrontarle nella loro espansione; vaste campagne di educazione sanitaria furono così attuate per insegnare buone pratiche igieniche a una popolazione ancora legata a vecchie credenze e rimedi casalinghi, purtroppo spesso inefficaci. Dal 1922 il governo iniziò a installare stazioni sanitarie per il controllo batteriologico in tutta la Russia sovietica, integrate fra loro per quanto concerne risorse e livelli di preparazione e risposta. Poi si passò alla sorveglianza sanitaria nel settore della produzione, del commercio e della distribuzione alimentare, contribuendo alla flessione della curva di mortalità infantile. Negli istituti medici si organizzò la formazione professionale e specialistica di microbiologi, epidemiologi e altre figure specializzate in prevenzione e cura igienico-sanitarie. Nel 1939 fu possibile fermare sul nascere una epidemia di peste polmonare a Mosca, ma con lo scoppio della seconda guerra mondiale e gli spostamenti di larghe masse di popolazione in cerca di salvezza, le condizioni igieniche peggiorarono e si diffusero di nuovo il tifo, la malaria e altre malattie virali, cui si tentò di porre un argine con distacchi militari dedicati alle emergenze sanitarie. Nella ricostruzione post-bellica e fino agli anni Settanta, il settore sanitario epidemiologico continuò a crescere, includendo laboratori per la disinfezione e la cura da radiazioni per il personale coinvolto nelle sperimentazioni nel nucleare; il controllo ambientale e dell’inquinamento, assieme a rigide norme e responsabilizzazioni di istituzioni e singoli cittadini, rafforzarono enormemente la lotta alle malattie infettive, con sanzioni anche molto pesanti per chiunque non rispettasse la normativa. Questo non significò la fine delle epidemie nell’URSS4, ma il principio di prevenzione e reazione collettiva fu espanso significativamente.

Oggi, nell’emergenza da Covid-19, la Repubblica Popolare Cinese ha dimostrato di essere più rapida ed efficiente dello scomparso alleato sovietico, aggiungendo alla mobilitazione sanitaria il controllo degli spostamenti e delle violazioni delle norme di contenimento attraverso la già diffusa rete di sorveglianza telematica interconnessa5. La facilità con cui il paese asiatico ha potuto mettere in campo le restrizioni è ovviamente connaturata all’autoritarismo della sua forma di governo, che in Europa risulta essere inaccettabile per una tale pervasività delle vite private dei singoli; eppure i risultati sono stati riconosciuti e indicati come esemplari dalla stessa Organizzazione Mondiale della Sanità6.

2. Diritti e doveri come problema educativo

La contrapposizione tra diritti e doveri può essere vista come uno dei principali fraintendimenti dell’epoca attuale, in cui si riflettono un individualismo egoistico e una diffidenza al limite del cinismo per ogni impostazione sovraindividuale. Tale contrapposizione non è frutto di una presa di coscienza politica o di una visione filosofica più o meno elaborata, bensì di un atteggiamento culturalmente superficiale, sostenuto dal disinteresse per la formazione dei cittadini come membri attivi delle strutture sociali di cui fanno parte. Possiamo vedere la questione da due prospettive: le difficoltà di valorizzazione dell’educazione civica nelle scuole, come problema a monte; e la sostanziale disinformazione, o almeno l’incomprensione, del funzionamento del sistema dei diritti e dei doveri in uno Stato democratico con garanzie costituzionali.

La prima prospettiva ha avuto solo di recente un revival giornalistico, con la promulgazione della Legge 2019 che istituisce nuovamente l’insegnamento dell’Educazione civica nelle scuole7, secondo modalità differenti e, si spera, più organiche rispetto ai tentativi precedenti, ossia l’istituzione originaria di questo insegnamento nel 19588 e la sua sostituzione/prosecuzione con i corsi di Cittadinanza e Costituzione9. Le difficoltà di rendere incisivo ed efficace tale insegnamento riguardano sia l’organizzazione in sé del corso, spesso relegato a poche ore e disperso tra più discipline; sia la scarsa volontà politica di riconoscere nell’educazione civica un vero e proprio fulcro della formazione scolastica, in vista della costruzione di una cittadinanza futura consapevole della rete di rapporti reali che la coinvolge. In particolare, lo studio e la comprensione degli articoli della Costituzione italiana sono un esercizio fondamentale per intendere la natura dei rapporti che intercorrono tra cittadini e istituzioni: infatti è proprio a partire dalla nozione di «dovere» lì espressa, accostata in modo significativo a quella dei «diritti», che diviene comprensibile il senso dell’appartenenza alla società e alla comunità.

Nell’art. 2, accanto ai diritti inalienabili, si parla infatti di doveri inderogabili, di solidarietà politica, economia e sociale. Essi sono conferiti al cittadino alla stessa stregua dei diritti, intesi in un senso personalistico per disciplinare i rapporti fra gli individui e il potere pubblico, secondo prescrizioni di comportamenti qualificanti e prestazioni di rilievo sociale. Tali doveri sono resi effettivi dall’ordine costituzionale stesso, che ne richiede l’adempimento in quanto Repubblica, secondo la fusione di due indirizzi opposti: i diritti vengono attribuiti e riconosciuti al soggetto privato, inserito nell’organizzazione giuridica e sociale dello Stato, mentre i doveri nei costituiscono i limiti essenziali. Se i diritti, insomma, costituiscono un limite all’attività dello Stato nei confronti dei soggetti privati, i doveri pongono vincoli di varia entità alla condotta di quegli stessi soggetti; si hanno così obblighi, divieti e imperativi nelle diverse situazioni che vengono in essere, distinguendo i doveri tra positivi, quali il dover fare (p. es. votare) o il dover dare (p. es. pagare le tasse), e negativi, per cui è necessario non compiere determinate azioni (p. es. non violare le leggi). Questa idea del dovere riveste sempre un ruolo e un interesse pubblici, anche quando questi si concretizzino in situazioni di svantaggio ritenute però necessarie, come l’espropriazione di terreni per motivi di interesse generale (art. 42), che rientra tra i doveri di solidarietà economica e sociale. In ogni caso, il sistema dei diritti e dei doveri nell’ordinamento italiano è caratterizzato da istituti di garanzia, ossia norme costituzionali che riconoscono le libertà e i diritti anche in situazioni di conflitto tra le forze sociali e politiche10.

Riguardo alla seconda prospettiva, l’emergenza epidemiologica ha messo in risalto come una parte consistente dei cittadini non abbia affatto chiare le dinamiche caratterizzanti i rapporti istituzionali; come è stato giustamente affermato, però, l’intervento dell’autorità è necessario e doveroso quando un’emergenza richiede che la salute collettiva e individuale sia tutelata11.

Non si possono affrontare temi tanto gravi con soluzioni improvvisate, basate su interessi individuali, bensì bisogna confrontarsi con l’interesse pubblico e l’ordinamento giuridico. Se e quando un provvedimento d’urgenza viene adottato dagli organi governativi, esso deve inserirsi in un ordinamento che lo giustifichi; i provvedimenti possono essere criticabili, ma la critica non può essere mai riferita al singolo provvedimento, senza considerare quale sia il contesto in cui viene emanato. Nel contesto attuale, al di là dei rischi di entità variabile nelle diverse realtà locali, l’emergenza sanitaria è globale, pandemica appunto; provvedimenti e misure diverse dipendono dal fatto che gli ordinamenti giuridici sono territorializzati: quello italiano è organizzato in maniera differente da quelli francese, spagnolo e tedesco, ad esempio, ma ognuno di questi si interfaccia con l’Unione Europea, che può assolvere al compito di regolare e stimolare il dialogo internazionale per l’adozione di misure comuni. È un difficile dialogo, quello che gli ordinamenti a livello internazionale devono affrontare, dovendo fare i conti con ispirazioni diverse tra oriente e occidente, tra sud e nord del mondo: nell’ambito occidentale abbiamo lo stato di diritto, che pone i principi di libertà al di sopra del potere dello Stato; altre tradizioni riguardano gli stati di tipo confessionale, con i principi di diritto e libertà delineati in base a principi religiosi che si sovrappongono allo Stato; vi sono poi ordinamenti autoritari nei quali, seppur laicamente, il potere del governo è tutt’uno con lo Stato. Queste frammentazioni internazionali portano a risposte molto diverse pur essendo tutti coinvolti nell’internazionalismo pandemico. Al livello nazionale, comunque, si riflettono ulteriori tipi di frammentazione: in Italia, la risposta giuridica in termini di strumenti istituzionali è su due piani, quello statale e quello regionale; con la riforma del Titolo V della Costituzione, le Regioni hanno ottenuto una potestà legislativa che può escludere lo Stato, con conseguenti conflitti di competenza in materia di sanità.

Nella pandemia, però, la risposta deve essere innanzitutto governativa. Non si può non riconoscere allo Stato centrale la funzione di arginare la pandemia con misure valide su tutto il territorio nazionale, adottate a tutela degli interessi non del governo, ma della collettività: il governo si assume una responsabilità nell’ambito delle prerogative costituzionali dell’ordinamento di cui è parte integrante, essendo uno dei tre poteri dello Stato12 il cui equilibrio e separazione fa lo stato di diritto. Il governo, anzi, ha persino il dovere di esercitare i suoi poteri nel momento dell’emergenza; che lo faccia in maniera adeguata o meno lo si vedrà in seguito, semmai è necessario comprendere che quando le misure di emergenza vanno a limitare le libertà dei cittadini, come quella di movimento, tali misure sono prese per tutelare la salute, non per coartare i diritti.

Parlando di prerogative costituzionali, l’art. 16 della Costituzione consente di limitare la possibilità di libera circolazione, presupponendo che queste misure possano essere adottate con atti aventi forza di legge: nel momento attuale è il DPCM, un provvedimento amministrativo del Consiglio dei ministri (attraverso il Presidente) che attua misure urgenti, legittimate con un atto avente forza di legge a monte di esso. La polemica contro questo tipo di provvedimento, soprattutto nei primi tempi dell’emergenza (scatenando complottismi “dittatoriali” nei suoi detrattori), non ha tenuto in conto un fattore decisivo, eppure semplice nella sua logica: non sempre vi sono i tempi tecnici affinché il Parlamento approvi la legge, pertanto si usano strumenti rapidi costituzionalmente consentiti e riconosciuti come il decreto-legge o appunto il DPCM, che sono legittimi e quindi validi se inseriti in un sistema giuridico che li consente. Ogni atto finalizzato ad affrontare una emergenza sanitaria è dunque legittimo, se ha a monte una norma che consente le limitazioni di libertà in determinati casi, ossia sotto la tutela costituzionale. Il DPCM va a dettagliare come le limitazioni debbano essere gestite: esse non possono mai essere imposte per motivi politici (ciò è vietato proprio dalla Costituzione), ma solo per le emergenze immediate e a tutela dei cittadini. Non è mai ridondante ripeterlo: il governo non solo ha il diritto di intervenire, ne ha il dovere, esercitando in autonomia la funzione esecutiva dagli altri poteri per l’amministrazione di queste limitazioni.

3. Formazione del carattere

Lo psicologo analitico James Hillman ci offre un’ulteriore riflessione problematica, che riporta la questione della responsabilità personale e pubblica alle sue fondamenta: la formazione di un carattere forte13, lungo tutto il corso della vita. Spesso, parlando di forza del carattere, si intende la capacità di porsi in opposizione alla socialità, di avere cioè (quasi in maniera narcisistica) la forza di non lasciarsi influenzare dalle opinioni altrui, di non lasciarsi guidare dagli altri, di non cedere mai a lusinghe, preghiere e richieste, fino ad atteggiamenti concretamente egoistici, come soverchiare la massa e magari prenderne il controllo per i propri interessi, dominare o almeno non lasciarsi dominare. Un tipo di forza caratteriale che, per quanto utile in determinate situazioni, può facilmente scadere nella tossicità emotiva14, se reiterata in ogni situazione relazionale. Ciò, in quanto questo tipo di carattere è sostanzialmente negativo, nel senso che nega la relazione costruttiva, nega bisogni e desideri altrui, arriva a negare persino i propri desideri e bisogni, identificandosi – se portato alle estreme conseguenze – con un cattivo carattere.

Hillman capovolge la prospettiva, liberando l’idea della forza di carattere dalle stratificazioni culturali negative accumulatesi nel tempo: partendo dalla concezione moralistica e repressiva dell’etica kantiana, in cui l’autocontrollo può divenire autocensura – con la conseguente pressione psicologica interna che può degenerare nella censura emozionale propria e altrui – lo psicologo propone la forza dell’apertura al dialogo e alla collaborazione, ovvero la forza di porsi di fronte ai rischi e alle difficoltà del mondo e della vita, riuscendo a mantenere coscienza di sé, autonomia e originalità. Le innumerevoli sfaccettature della questione, trattate dall’autore con la consueta prospettiva junghiana, riguardano aspetti come l’invecchiamento (visto come una forma d’arte), la cura di sé, la resistenza “gentile” all’omologazione della cultura di massa e via dicendo; ciò che ci interessa qui è rilevare come la forza di carattere sia azione secondo un progetto, corredata da sensibilità e apertura al confronto; formazione all’equilibrio, all’attività e alla responsabilità, congiungendo cura di sé e dialogo con gli altri, costruzione di sé e orientamento nel mondo.

Tale iter è più etico-estetico, che etico-ideologico: formarsi, nel senso letterale di darsi forma, in una crescita continua, implica certamente il mantenimento di fedeltà al proprio modello, alla propria personalità e individualità, come nella vecchia concezione, ma non in senso oppositivo, ossia di chiusura, bensì di apertura e sviluppo della capacità autocritica di innovarsi rispetto ai cambiamenti socio-ambientali. Il mantenimento della propria originalità e unicità funziona quanto più ci si forma all’equilibrio nella mutevolezza degli eventi, in famiglia, nella scuola, nell’accesso ai mass media, nei luoghi della socializzazione più diversi. Si tratta di una prospettiva postmoderna di carattere in costruzione come identità soggettiva aperta al sociale, modellantesi non solo per obbedire alle regole collettive, ma per interiorizzarle in maniera critica, consapevole, partecipativa15.

La costruzione della forza del carattere è un processo che non ha mai fine e può essere accostato agli ambiti pedagogici del lifelong/lifewide learning, ossia di azioni di apprendimento intenzionali lungo il corso della vita e in tutti i contesti in cui si vive e si opera, come contributo di una branca della psicologia all’educazione in quanto terreno teorico-pratico di orientamento della persona, del cittadino e del lavoratore. Ritorna qui la citata questione dell’impegno educativo e autoeducativo degli individui, in quanto la solidarietà è un dovere che implica una limitazione, una rinuncia se si vuole, alla preponderanza dei propri diritti in favore di quelli altrui e viceversa. Questo richiede disciplina caratteriale, perché non è sufficiente lo sforzo educativo proveniente dall’esterno, vi deve essere anche una presa di coscienza sulle necessità che coinvolgono le relazioni nella vita associata, superando la tendenza culturale ad atteggiamenti meramente egoistici, per adottare linee prospettiche in cui l’individuo e la collettività riconoscono una mutua influenza e adottano così il principio di responsabilità come fondamento dei rapporti. Responsabilità verso se stessi e gli altri vuole dire, pertanto, avere la forza di carattere necessaria ad affrontare i propri doveri come completamento dei propri diritti.

Possiamo dunque concludere con una nota storica, richiamando il pensiero di Giuseppe Mazzini, che nel suo scritto del 1860 Doveri dell’uomo ha in sostanza fondato il principio giuridico-educativo della complementarietà dei diritti con i doveri, come base dell’educazione del cittadino repubblicano:

«EDUCAZIONE, abbiamo detto; ed è la gran parola che racchiude tutta quanta la nostra dottrina. La questione vitale che s’agita nel nostro secolo è una questione di Educazione. Si tratta non stabilire un nuovo ordine di cose colla violenza; un ordine di cose stabilito colla violenza è sempre tirannico foss’anche migliore del vecchio: si tratta di rovesciare colla forza la forza brutale che s’oppone in oggi a ogni tentativo di miglioramento, di proporre al consenso della Nazione, messa in libertà, d’esprimere la sua volontà, l’ordine che par migliore e di educare con tutti i mezzi possibili gli uomini a svilupparlo, ad operare conformemente. Colla teoria dei diritti possiamo insorgere e rovesciare gli ostacoli; ma non fondare forte e durevole l’armonia di tutti gli elementi che compongono la Nazione. Colla teoria della felicità, del benessere dato per oggetto primo alla vita, noi formeremo uomini egoisti, adoratori della materia, che porteranno le vecchie passioni nell’ordine nuovo e lo corromperanno pochi mesi dopo. Si tratta dunque di trovare un principio educatore superiore a siffatta teoria che guidi gli uomini al meglio, che insegni loro la costanza nel sacrificio, che li vincoli ai loro fratelli senza farli dipendenti dall’idea d’un solo o dalla forza di tutti. E questo principio è il DOVERE. Bisogna convincere gli uomini ch’essi, figli tutti d’un solo Dio, hanno ad essere qui in terra esecutori d’una sola Legge – che ognuno d’essi, deve vivere, non per sé, ma per gli altri – che lo scopo della loro vita non è quello di essere più o meno felici, ma di rendere sé stessi e gli altri migliori – che il combattere l’ingiustizia e l’errore a beneficio dei loro fratelli, e dovunque si trova, è non solamente diritto, ma dovere: dovere da non negligersi senza colpa – dovere di tutta la vita.»16

Sebbene la visione di Mazzini avesse precise influenze filosofico-religiose, una altrettanto precisa collocazione storica e sia stata in seguito distorta e stravolta dal fascismo come auto-giustificazione del proprio dominio, è il cuore della sua idea che ci interessa: nel momento in cui le strutture della vita associata entrano in crisi e si rende necessario un sacrificio momentaneo delle proprie prerogative individuali, in favore di una azione collettiva solidale, il diritto si trasforma in dovere e con esso si assicura il diritto stesso.

Note

1 Cfr. M. Saudino, Lezione in piazza: l’istruzione è emancipazione, video di una lezione tenuta in pubblico a Torino dal docente, caricato il 23 gennaio 2021 sul canale YouTube «Barbasophia», all’indirizzo: https://www.youtube.com/watch?v=CEQwzyb6NW8.

2 Cfr. B. Egorov, Come l’Urss riuscì a bloccare tre paurose epidemie: di peste, di vaiolo e di antrace, pubblicato in «Russia Beyond» il 27 marzo 2020, consultabile online all’indirizzo: https://it.rbth.com/storia/84165-come-lurss-riusc%C3%AC-a-bloccare.

3 Cfr. B. Egorov, Così l’Urss organizzò il miglior servizio sanitario epidemiologico al mondo, pubblicato in «Russia Beyond» e consultabile online all’indirizzo: https://it.rbth.com/storia/84189-cos%C3%AC-lurss-organizz%C3%B2-il-miglior-servizio-sanitario.

4 Infatti può apparire assurda, a fronte di tale sforzo preventivo, una abitudine tipicamente sovietica sopravvissuta a lungo, di usare il “bicchiere pubblico” nei distributori automatici di acqua gassata, in voga sin dagli anni Trenta. I distributori erano ovunque e davano anche la possibilità di aggiungere un gusto a scelta, rendendo l’acqua frizzante un equivalente delle bibite occidentali; funzionavano come gli odierni saturatori casalinghi, ma anziché avere bicchieri di plastica monouso, fornivano uno o due bicchieri di vetro, che dovevano essere sciacquati da ognuno dopo l’uso, e quindi riutilizzati dai successivi avventori. Non esistono dati certi né ufficiali, ma è molto probabile che tale caratteristica fu veicolo di alcune epidemie fino agli anni Ottanta. Cfr. E. Sinelshchikova, Ai distributori sovietici di bibite si beveva tutti dallo stesso bicchiere: furono causa di epidemie, pubblicato in «Russia Beyond» il 17 aprile 2020, consultabile online all’indirizzo: https://it.rbth.com/storia/84278-ai-distributori-sovietici-di-bibite.

5 Per un approfondimento complementare dei temi qui trattati e delle strategie adottate nei Paesi asiatici per il contrasto della pandemia, mi permetto di rimandare al mio Dicotomie pedagogiche nello stato di emergenza: libertà individuale versus responsabilità collettiva, in AA.VV., Diritto ed economia nello stato di emergenza: mutamenti strutturali nella\della realtà sociale, CEDAM, Padova 2021, in corso di pubblicazione.

6 Cfr. OMS, Press conference March 13, 2020, consultabile in lingua inglese all’indirizzo: https://www.who.int/docs/default-source/coronaviruse/transcripts/who-transcript-emergencies-coronavirus-press-conference-full-13mar2020848c48d2065143bd8d07a1647c863d6b.pdf?sfvrsn=23dd0b04_2.

7 L. 20 agosto 2019, n. 92, in G. U. Serie Generale n.195 del 21 agosto 2019, consultabile in rete all’indirizzo: https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2019/08/21/19G00105/sg.

8 D.P.R. n. 585 del 13 giugno 1958, estensore Aldo Moro in qualità di Ministro della pubblica istruzione. Si veda in particolare l’Allegato, contenente tutte le motivazioni politiche e sociali dell’insegnamento. Consultabile in rete all’indirizzo: https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/1958/06/17/058U0585/sg.

9 Si veda la pagina dedicata del MIUR: https://www.miur.gov.it/cittadinanza-e-costituzione.

10 Per una disamina approfondita della questione del dovere in senso giuridico, si veda G. P. Calabrò, P. B. Helzel, Il sistema dei diritti e dei doveri, Giappichelli Editore, Torino 2007, Cap. VI.

11 Si veda l’intervista al prof. Vincenzo Ferrari, ordinario di Diritto privato presso l’Università della Calabria, nella trasmissione in rete La circolarità delle idee, puntata n. 112 del 11 novembre 2020, disponibile nell’archivio video del sito «Miga Web TV» all’indirizzo: https://www.migawebtv.it/video.aspx?video=/video/112CircoVincenzoFerrari.mp4.

12 Come noto – ma a questo punto non è superfluo ripeterlo – sono l’esecutivo (il governo), il legislativo (il parlamento) e il giudiziario (le corti). Cfr. Montesquieu, Lo spirito delle leggi, 2 voll., Utet, Torino 2005.

13 Cfr. J. Hillman, La forza del carattere, Adelphi, Milano 2000.

14 L’espressione non è sua, ma anche Daniel Goleman ha estensivamente parlato della necessità di riprendere contatto con la sfera emotiva, molte volte repressa in nome dell’ostentazione della forza e della determinazione (malintese), rilevando come poi le emozioni tornino sotto pressione a farsi causa di innumerevoli problemi psicologici e comportamentali, sul lavoro come in famiglia e con se stessi. Empatia, autocontrollo, attenzione verso l’altro ecc. sono emozioni fondamentali per la riuscita delle relazioni e, quindi, della vita quotidiana personale e sociale. Cfr. D. Goleman, Intelligenza emotiva, Rizzoli, Milano 1996; e Id., Intelligenza sociale, Rizzoli, Milano 2007.

15 Per una presentazione critica del tema in ambito pedagogico, cfr. F. Cambi et alii (a cura di), Pedagogia generale. Identità, percorsi, funzione, Carocci, Roma 2009, pag. 75 e seg.

16 Brano tratto dal capitolo primo [fonte: e-book preparato per il “progetto Manunzio” di Liber Liber (www.liberliber.it), scaricabile in formato pdf all’indirizzo: https://web.archive.org/web/20070930181418/http://www.liberliber.it/biblioteca/m/mazzini/doveri_dell_uomo/pdf/doveri_p.pdf].