Pedagogia di genere: ruoli, identità e concezioni culturali

Bozza per un contributo in corso di pubblicazione in volume collettaneo.

  • Sommario
    • Parola, azione, valore
    • Educazione di genere formale e informale
    • Pari opportunità: quale pedagogia?

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Parola, azione, valore

Riflettere dal punto di vista pedagogico sul grande tema della parità di genere – un compito di cui possiamo solo tracciare, qui, alcuni spunti molto generali – implica riconnettere la prassi educativa alle teorie socio-psicologiche da cui derivano concetti all’ordine del giorno, dalla definizione dell’identità di genere alla critica del ruolo sociale che da essa deriva.

Questa riconnessione, ossia il tentativo costante di ritrovare un nesso che sembra svanire tra i flutti di una marea narrativa sociale e politica, si potrebbe individuare, per esempio, nella possibilità di inserire una qualche forma di educazione sessuale nella scuola; oppure di cambiare le modalità stereotipate con cui si impostano, tra le altre, le narrazioni del marketing pubblicitario. In sostanza, si tratta di agire sul modo di creare l’immaginario collettivo attraverso il linguaggio simbolico e culturale.

Le complessità di questo linguaggio nell’epoca attuale sono tali, da non poter semplificare le questioni di genere a una sorta di “gioco a squadre”, le cui rispettive tifoserie si danno battaglia sulle reti sociali, spesso a suon di improperi e con quasi nulla rilevanza concettuale. Le divisioni sono talmente nette da eclissare qualunque tipo di ragionamento critico, riducendo tutto il discorso sul genere, sui ruoli, sulla sua definizione stessa, alle caricature forzate della “teoria gender” e del quadro retorico del “politicamente corretto”, oppure a ipotesi di coscienti manipolazioni ideologiche che vadano oltre il mero interesse consumistico di mercato.

Per provare a far chiarezza, pur coscienti delle difficoltà di questo tentativo, possiamo partire dalla famosa relazione di Alma Sabatini1 del 1987 per la Presidenza del Consiglio delle ministre e dei ministri e per la Commissione delle Pari Opportunità, dal titolo Il sessismo nella lingua italiana. In questo documento, forse per la prima volta in ambito istituzionale, viene posto il problema di ampliare l’uso della lingua alle varianti femminili e a forme più neutrali, quando possibile, al fine di non utilizzare sempre e solo il genere maschile nelle comunicazioni, negli interventi, nei discorsi e così via. Lo scopo è stimolare una presa di coscienza sul sottotesto sessista della comunicazione: sessista in quanto l’uso del maschile sovraesteso contribuisce a creare un modo di esprimersi omologato all’idea che il genere maschile sia preminente per sua stessa natura, non solo nella grammatica della lingua italiana (dove occupa anche lo spazio lasciato dalla scomparsa del neutro) bensì, per estensione, anche nella società e nei rapporti culturali, ideologici, lavorativi, affettivi e via dicendo. Aprire alla diversità di genere nella comunicazione, veicola una visione concettuale che include anche la diversità umana nell’immaginario culturale in seno alla società, donando un tenore rispettoso anche a quelle versioni femminili di nomi professionali che, un tempo, avevano un alone denigratorio e possono mantenere ancora oggi, in certi ambienti, un valore sminuente rispetto al corrispettivo maschile2.

Per cultura si intende, in linea di massima, la cultura dominante, costruita sull’egemonia di un gruppo sociale i cui valori e concezioni danno forma alla società nei suoi aspetti più generali e ramificati. L’eredità del passato, le consuetudini, le questioni storiche e politiche, l’assetto economico che, in ultima istanza, contribuisce a sviluppare relazioni sociali di vario tipo (comprese le configurazioni familiari), sono alcuni elementi della cultura dominante e perciò della visione del mondo su cui l’identità nazionale, popolare e individuale trova i suoi fondamenti. Ciò influenza, come dovrebbe esser chiaro, anche l’identità di genere, costruendo nel tempo dei modelli culturali che definiscono i contorni e i limiti della mascolinità e della femminilità, dell’eterosessualità come di ogni altra possibile variante di orientamento sessuale; a queste definizioni, basate su idee di varia natura e provenienza, vengono inevitabilmente fatti corrispondere dei ruoli di genere, ossia il posto che spetta all’interno della società a uomini, donne e altre identità, nonché quali compiti essi possano o debbano svolgere o meno. L’ambito educativo, sia scolastico che familiare, oltre che più informalmente sociale, è pienamente inserito in questo campo di definizioni, costituendone anzi il terreno principale.

Educazione di genere formale e informale

L’educazione formale, ossia riguardante le istituzioni ufficiali come la scuola e l’università, è il terreno di scontro su cui si fronteggiano le lotte politiche più vicine a partiti e gruppi di interesse. L’idea di inserire ore dedicate all’educazione sessuale provoca, soprattutto in Italia, aspre contese tra chi vorrebbe implementarla al fine di arginare il sessismo di cui sembra impregnata la cultura dominante, e chi la ritiene una spinta verso il degrado morale e persino la devianza sessuale dei giovani. Non è peregrino pensare che sia l’aggettivo sessuale a provocare reazioni avverse, in quanto un perdurante preconcetto linguistico lo relega al puro atto fisico copulativo, con connotazioni pornografiche inaccettabili rispetto alle fasce d’età scolari. Il recente inserimento (novembre 2023) della materia “Educazione alle relazioni” nelle scuole superiori, che riprende un iter iniziato nel 2016, già nel nome si presenta più rassicurante dando risalto all’aspetto, in verità preponderante, dell’educazione sessuale, cioè la gestione consapevole delle emozioni e quindi la maturazione della sfera sentimentale, che della sessualità è parte integrante. Il problema di questo piano pedagogico è però la visione ristretta che sembra mantenere3: già in fase di elaborazione non sono state consultate le molteplici realtà associative che del tema si occupano da anni, ma anche sul piano contenutistico rischia di essere una iniziativa inefficace, in quanto rivolta ad allievi e allieve dai 15 anni in su, con un carico di trenta ore facoltativo, perciò non obbligatorio da seguire per le scuole. Né per gli studenti e le studentesse: si presenta infatti come materia extracurriculare.

Alle difficoltà di inserimento nel contesto scolastico di un tentativo, peraltro dettato dall’emergenza di tragici casi di cronaca tra femminicidi e stupri di gruppo, si sommano le diffidenze in ambito familiare verso discussioni su modelli di sessualità non conformi a quanto percepito come naturale, tradizionale, giusto. Le differenze di genere sono ancora molto marcate nei tratti stereotipati del comportamento, dell’abbigliamento e dei compiti da svolgere, reiterando la scelta differenziale, per esempio, nei colori di vestiti e accessori, senza alcuna consapevolezza dell’origine di determinate usanze, origine storica situabile e databile, modificata nel corso del tempo per esigenze di vario tipo. Il rosa per le bambine e l’azzurro per i bambini, come differenza cromatica di genere, ha infatti origine negli anni del boom economico, per motivi di marketing che soppiantavano quanto era in voga prima della guerra, soprattutto nel mondo anglosassone: all’epoca, era il rosa a essere considerato un colore “forte”, adatto ai maschi, in quanto reminiscente del sangue versato sui campi di battaglia, mentre l’azzurro, più delicato e, in alcuni Paesi, associato alla figura religiosa di Maria, era invece considerato adatto alle femmine. Questo aneddoto, riportato anche nel recente saggio della pedagogista Alessia Dulbecco dal significativo titolo Si è sempre fatto così4, dimostra la storicità, cioè l’origine situata e datata, legata al contesto culturale e sociale di una zona geografica particolare, di una usanza che oggi viene percepita come “naturale”, ossia legata alla biologia umana, e virtualmente eterna. Si tratta di un microscopico esempio di una enorme quantità di usanze consolidate e concettualizzate nel corso del tempo, divenute altrettanto “naturali” nella definizione culturale dei ruoli sociali in base al genere biologico.

Un’ulteriore piano, ascrivibile all’educazione informale nel senso più ampio del termine, riguarda il marketing, fonte di narrazioni imperanti attraverso la riproposizione attraverso i media di immagini di alto valore simbolico, asservite alla vendita di prodotti. La questione è in verità alquanto complicata, involvendo ricerche sulla capacità della propaganda commerciale di influenzare la sfera dei bisogni e dei desideri, sulla possibilità di instillare visioni del mondo e plasmare l’immaginario collettivo, tanto sul piano simbolico quanto su quello culturale, ma non è questa la sede per approfondire il discorso. Basti rilevare come il ruolo del mercato dei consumi possa essere in certi casi determinante per comprendere le tendenze culturali da inglobare, rivedere e correggere in senso consumistico: l’aumento, negli ultimi anni, di pubblicità rivolte a un pubblico della sfera LGBTQ+ (coppie omosessuali, famiglie allargate ecc.), o che trattano in maniera più franca e diretta questioni come il ciclo mestruale (uso del colore rosso al posto del blu, rappresentazioni artistiche dei genitali femminili ecc.), sono un segno di come nel marketing commerciale si siano individuati e accolti nuovi target, in linea con le nuove sensibilità. Al contempo, sorge la critica a queste campagne con appellativi quali pinkwashing, rainbowashing, greenwashing e così via, per sottolineare come le aziende si diano una “riverniciata” pseudo-progressista per attrarre clientele femminili, o di vario orientamento sessuale, o di gente interessata ai temi dell’ecologia e della sostenibilità, ma senza portare avanti un impegno effettivo, politico, rimanendo nell’ambito del mero consumo di prodotti.

Pari opportunità: quale pedagogia?

La differenza tra i sessi è, dunque, un prodotto storico-culturale. La reiterazione di stereotipi inizia sin dalla nascita, con l’attribuzione di aggettivi diversi tra neonati di diverso sesso biologico: a titolo di esempio, forte, robusto, grosso, se è maschio; graziosa, delicata, dolce, se è femmina. Questa attribuzione avviene in maniera automatica, dettata dalle influenze culturali che formano la percezione delle persone nel corso della vita. Per questo paiono “naturali”, ovvie, nonostante siano costruzioni, come si è detto, storiche. Ma è proprio per questo che sin dalla nascita si tende ad attribuire anche un ruolo sociale, come fosse un destino. La visione che accompagnerà il resto della vita di quel bambino e di quella bambina, li spingerà verso comportamenti, usi e costumi dettati da altri e qualsiasi loro devianza sarà vagliata, giudicata e, in molti casi, condannata5.

La critica femminista, in particolare quella della cosiddetta seconda ondata avvenuta tra gli anni Sessanta e Settanta del XX secolo, ha posto l’accento su queste visioni della differenza sviluppando diverse linee di pensiero (per questo sarebbe corretto parlare di femminismi, al plurale). Da un lato, autrici come Luce Irigaray hanno sottolineato la differenza tra uomini e donne, approfondendo la diversità per propugnare la liberazione del soggetto donna dalla cultura maschile dominante, rivendicando così l’autonomia della cultura femminile. Altre hanno invece parlato di superamento della differenza, aprendo la strada alle posizioni dei movimenti femministi attuali; il femminismo della differenza, infatti, ha finito col confermare alcuni stereotipi di genere nel momento in cui ne rivalutava in positivo quelli attribuiti alle donne. Susan Sontag ha scritto, nel 1973:

Una pedagogia di genere che, oggi, voglia proporre una nuova concezione del rapporto tra le identità e i ruoli sociali, deve tener conto sia del contesto in cui viene messa in pratica, sia dell’obiettivo di fondo che risulta imprescindibile: la costruzione di una società non escludente a priori, in cui ogni persona possa esprimere se stessa e avere opportunità di vivere e operare liberamente. Alcuni punti basilari sono pertanto:

  • lo studio dei fattori storico-culturali che hanno portato a delineare i modelli comportamentali maschili e femminili;
  • la discussione sull’esistenza di identità ulteriori e la loro configurazione rispetto al genere biologico, all’orientamento sentimentale e alla percezione di sé;
  • l’analisi della costruzione sociale dei ruoli di genere, loro storicità e superamento;
  • lo studio sulla consapevolezza del proprio corpo, sia sul piano della salute e del benessere, sia su quello del rispetto e della convivenza.

Dal punto di vista dei metodi, è necessario superare forme di trasmissione delle informazioni tramite le classiche lezioni frontali, adottando una prospettiva dialogica esprimibile con strategie didattiche calibrate sul contesto classe in cui si opera, fermo restando la presenza di personale formato sulla materia e l’attivo coinvolgimento di ragazzi e ragazze nel processo formativo. L’interazione di domande e risposte deve avere come fine ultimo l’intensificazione della naturale curiosità verso i temi trattati e la possibilità di conoscerli a fondo, senza imporre versioni preconfezionate (ideologiche), bensì stimolando il confronto attivo e dialogico, partendo dalla prospettiva del gruppo classe.

Le pari opportunità derivano da una concezione sociale inclusiva, ovvero da un ambiente che lasci le persone in grado di agire partendo dalle proprie possibilità, non dai propri, spesso solo presunti, limiti individuali. La dignità percepita, come si è accennato all’inizio, parte anche dal linguaggio usato: è infatti limitante, a priori, la differenza di livello nel denominare un professionista uomo enunciando titolo e cognome, ma solo il nome di battesimo nel caso di una professionista donna. L’autorevolezza, quindi la considerazione e l’attenzione attribuite, variano già nelle scelte lessicali che si compiono. Di conseguenza, anche una riflessione sul lessico deve rientrare nelle attività pedagogiche di genere, in quanto presa di coscienza di forme di oppressione semi-nascoste.

Note

1Il documento in formato pdf è reperibile e liberamente scaricabile da Internet, sia come estratto del capitolo III (qui), sia come testo completo (qui).

2Si pensi alla nota decisione dell’attuale Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, prima donna a ricoprire l’incarico, di richiedere l’uso dell’articolo maschile in riferimento al suo ruolo, riprendendo una posizione che poco tempo prima aveva portato alla ribalta il direttore d’orchestra Beatrice Venezi, della Nuova Scarlatti di Napoli e dell’Orchestra Sinfonica Milano Classica. Nel caso del Presidente, comunque, l’intento politico di presa delle distanze dalla retorica politica dei movimenti femministi appare più evidente. D’altro canto, vale altrettanto la pena ricordare un monologo dell’attrice Paola Cortellesi all’edizione 2018 dei David di Donatello sulle parole e il loro valore negli equivoci culturali che portano alla discriminazione e alla violenza sulle donne.

3Si veda a titolo di esempio il comunicato della FLC-CGIL, all’indirizzo https://www.flcgil.it/attualita/educazione-alle-relazioni-la-flc-boccia-il-progetto-valditara.flc

4Dulbecco A., Si è sempre fatto così! Spunti per una pedagogia di genere, Edizioni Tlon, 2023.

5Giddens A., Sociologia, Il Mulino, 1989, cap. 6. Si consigliano anche i testi mostrati nell’immagine di anteprima: Maschio per obbligo, di Carla Ravaioli per Bompiani (saggio sul modello maschile, corredato da un campionario di pubblicità, brani di letteratura, esempi che influenzano l’immagine di come dovrebbe essere un vero uomo), e Dalla parte delle bambine, di Elena Gianini Belotti per Feltrinelli (studio sulla genesi del modello femminile sin dai primi anni di vita, tra aspettative, tradizioni, preconcetti, imposizioni e via dicendo), entrambi del 1973.

6Sontag S., Sulle donne, Einaudi, 2024.