La liberazione degli oppressi nella pedagogia di Paulo Freire
Pubblicato in “Periferia”, numero speciale 2013.
Questo articolo ha rappresentato il mio primo approccio ufficiale alla pedagogia freiriana.
- Contesto storico e politico
- La Teologia della Liberazione
- Vita e opere
- Il “Metodo Freire”: una pedagogia per la liberazione
Paulo Freire è considerato uno dei più notevoli pensatori nella storia della pedagogia mondiale, avendo influenzato la pedagogia critica, basata sulla necessità di stimolare gli studenti a sviluppare una coscienza libera, a riconoscere le tendenze autoritarie e a coniugare la conoscenza al potere e all’abilità di assumere attitudini costruttive e creative. Si è distinto per il suo lavoro nell’area dell’educazione popolare, volta all’alfabetizzazione e alla formazione della coscienza politica per l’esercizio della cittadinanza; nella sua opera più importante, Pedagogia degli oppressi,1 ha esposto il suo metodo di alfabetizzazione distinguendolo dall’avanguardismo tradizionale degli intellettuali progressisti, difendendo il dialogo con le persone semplici sia come metodo, sia come modo di essere realmente democratici. Il talento di scrittore lo ha aiutato a conquistare un ampio pubblico di pedagogisti, scienziati sociali, teologi e militanti politici. Le sue idee rivoluzionarie nel campo dell’educazione sono legate alle concezioni espresse dalla Teologia della Liberazione e alle vicende del Brasile, suo paese natale, e più in generale dell’America Latina e del cosiddetto Terzo Mondo, inteso non solo in senso geografico quanto in senso sociologico. È pertanto utile e necessario inquadrare l’ambiente in cui Freire si è formato per poter comprendere la radicalità della sua proposta pedagogica.
Contesto storico e politico
L’America Latina ha affrontato lungo il corso degli ultimi due secoli un faticoso processo di affrancamento dal colonialismo europeo, sperimentando tumulti sociali e politici dovuti a difficoltà interne nel creare nuovi stati-nazione con una propria identità culturale e a difficoltà esterne nel trovare un proprio ruolo sullo scacchiere politico internazionale, spesso schiacciato tra la dipendenza economica dai paesi industrializzati e i rischi dell’allineamento politico, in particolar modo durante la Guerra Fredda. Le varie realtà latino-americane hanno in comune la matrice coloniale iberica (in senso ampio, ossia Spagna e Portogallo), la commistione tra cultura europea e indigena, nonché africana per via della schiavitù, e la costante instabilità politica ed economica sfociata nell’alternanza di periodi democratici e regimi dittatoriali. Le enormi diseguaglianze sociali, l’analfabetismo, lo sfruttamento, le condizioni di miseria di larghi strati della popolazione e viceversa di estrema ricchezza delle élite latifondiste e industriali hanno provocato spesso rivoluzioni e lotte politiche molto dure, così come la ricerca di soluzioni alternative ai problemi in molti campi, compreso quello culturale. Nella seconda metà del Novecento, con l’infuriare della contrapposizione tra i paesi aderenti alla NATO e quelli aderenti al Patto di Varsavia, l’America Latina, come l’Africa e parte dell’Asia, è divenuta terreno di scontro tra le superpotenze, nonostante gran parte degli Stati avessero aderito al Movimento dei Non Allineati.
Il Brasile in cui nacque Freire, nel 1921, si era reso indipendente dal Portogallo già da un secolo ed era diventato una repubblica federale da poco più di una trentina d’anni; dopo una prima fase di alternanza democratica, a partire dagli anni Trenta si instaura il regime di Getúlio Vargas2, a seguito di un colpo di stato per rovesciare un verdetto elettorale probabilmente manipolato: è l’inizio di una serie di governi autoritari che vedono il Paese conteso tra militari e movimenti popolari, tra la promulgazione di Costituzioni democratiche poi abrogate e restrizioni alle libertà civili. Poco prima della Seconda guerra mondiale, Vargas riesce a consolidare il suo potere fino a creare l’Estado Novo, un regime simile a quello fascista; eppure il Brasile si schiera a fianco degli alleati, entrando così da vincitore nella sfera d’influenza occidentale dopo la fine del conflitto. Deposto Vargas, il Brasile vive una nuova stagione di governi democratici (in cui lo stesso Vargas tornerà al potere, negli anni Cinquanta, legittimamente eletto) fino al 1964, in cui i militari compiono un golpe per deporre il presidente Goulart, accusato di riforme politiche comuniste. Questo regime militare è il primo di molti altri simili, che si diffonderanno negli anni Settanta in tutto il Centro e Sudamerica per contrastare l’influenza di movimenti socialisti e comunisti e reprimere le opposizioni ai governi conservatori; una serie di iniziative note come “Operazione Condor”3 a supporto di organizzazioni militari e paramilitari di orientamento politico reazionario, spesso foraggiate dagli Stati Uniti del presidente Nixon per tutelare gli interessi di aziende nordamericane colpite da riforme sociali più garantiste ed egualitarie e in generale per mantenere il controllo sul “cortile di casa”, portano dunque alla nascita di dittature in paesi come l’Argentina, il Cile, il Perù e il Paraguay, smantellando lo stato sociale e proibendo le associazioni sindacali. La durezza delle repressioni, gli arresti, i desaparecidos, le torture, la censura di stampa ed espressioni culturali, condannano all’esilio e alla fuga molti esponenti delle opposizioni, soprattutto di area marxista; allo stesso tempo però si formano movimenti di resistenza, alcuni dediti alla lotta armata, altri in seno alle chiese locali, la cui vicinanza agli strati più poveri della popolazione determina lo sviluppo di visioni teologiche impegnate nella soluzione della crisi sociale sempre più grave, ossia una teologia che pone in primo piano i valori di emancipazione presenti nel cristianesimo, rivolti alla società in senso politico. Questo movimento, la Teologia della Liberazione, prende posizione in favore delle popolazioni povere e delle loro lotte per una società più solidale, intendendo perciò attivo e popolare il ruolo della Chiesa e avvicinandosi a concezioni socialiste, peraltro fortemente osteggiate dalla Santa Sede, con cui il movimento sarà sempre in contrasto. Ma è proprio nell’azione culturale ispirata dai nuovi concetti teologici che acquista forza la spinta verso proposte radicali di emancipazione, anche e soprattutto attraverso l’alfabetizzazione e l’educazione di giovani e adulti, di cui Freire sarà il massimo esponente.
La Teologia della Liberazione
Se l’origine del movimento teologico di liberazione risale al Consiglio Episcopale Latino-americano del 1968 in Colombia, è con la diffusione delle Comunità Ecclesiali di Base che l’impegno della chiesa latino-americana inizia a stimolare concretamente una fede partecipe dei problemi sociali e popolari; l’ispirazione per questa riscoperta di una chiesa popolare deriva dalle istanze del Concilio Vaticano II sulla povertà della Chiesa e la sua contrarietà all’oppressione, inoltre da esperienze europee negli anni Cinquanta di vicinanza di preti e pastori al mondo operaio e perciò di nuove spinte missionarie. Anche i movimenti per i diritti civili negli USA e in particolare le lotte dei neri contro la segregazione danno impulso alla nuova teologia, così come le esperienze africane di rivolta contro il colonialismo e l’apartheid. Preti e vescovi latino-americani si riuniscono in varie conferenze lungo gli anni Settanta, definendo il concetto di opzione preferenziale per i poveri nella loro vicinanza alle lotte di liberazione; sacerdoti come il peruviano Gustavo Gutiérrez4 e il brasiliano Leonardo Boff5 scrivono libri significativi per lo sviluppo dei concetti della Teologia della Liberazione, tanto da essere tra i primi bersagli non solo dei regimi repressivi, ma anche della Santa Sede, la cui reazione è severa: papa Giovanni Paolo II nega la possibilità di accomunare la visione di Cristo come “rivoluzionario” alle concezioni del cattolicesimo, mentre il cardinale Joseph Ratzinger, presidente della Congregazione per la dottrina della fede, ritiene incompatibile la tendenza marxista della Teologia della Liberazione con la dottrina sociale della Chiesa cattolica, improntata al compromesso e non alla lotta.
Certamente esiste una componente politica molto forte nelle tesi di questa teologia, scaturita dalla comprensione della situazione sociale ed economica dell’America Latina; la liberazione, di fronte al brutale esercizio del potere repressivo, non ha possibilità di compromesso bensì solo di sottomissione o di reazione missionaria: considerando la povertà un peccato sociale e la dittatura una contraddizione del disegno divino, peccatore è colui il quale perseguita e opprime gli sfruttati, le vittime che subiscono il peccato e che cercano giustizia. La salvezza, dal punto di vista cristiano, necessita di una liberazione sociale, politica ed economica, quali elementi distintivi della dignità umana: per questo l’impegno delle chiese deve andare in direzione di una presa di coscienza della realtà socio-economica di forte disuguaglianza, ponendosi a fianco dei poveri e dei diseredati, vittime della condanna alla miseria per l’opulenza delle élite; la rivendicazione della democrazia è fondamentale per la trasformazione di un tale sistema sociale ed economico, per l’eliminazione della povertà, dell’ingiustizia e della preclusione all’accesso a servizi come l’istruzione e la sanità. È qui, nella presa di coscienza sulle condizioni materiali degli oppressi e sul loro cambiamento per raggiungere una società cristianamente intesa come solidale e libera, che risiede l’accettazione di una prospettiva marxista, ma allo stesso tempo bisogna tenere in conto il rifiuto di tesi “classiste” per cui gli oppressi debbano essere in lotta per il potere: la rivoluzione sociale è improntata principalmente all’amore per il prossimo e quindi alla carità, alla solidarietà per la creazione di condizioni di vita dignitose, in contrapposizione alla logica del profitto capitalista; e alla libera accettazione della dottrina evangelica, contrariamente all’indebito legame tra gli aiuti delle missioni e il seguito di fedeli. Non è azzardato pensare che il contrasto con i settori conservatori della Chiesa cattolica derivi da una percezione errata delle tesi latino-americane come di una poco plausibile “infiltrazione comunista” in ambito ecclesiastico e, forse, dalla confusione tra le idee espresse nelle lotte popolari di liberazione e la retorica dei regimi del Blocco orientale, avversi alle concezioni religiose.
Per i teologi della liberazione, dunque, il motore del cambiamento è l’uomo solidale e creativo, cosciente della realtà che lo circonda e partecipe dei problemi della società in cui vive: per ottenere questo c’è bisogno di un’educazione diffusa, perché ogni persona possa sviluppare la creatività a vantaggio di se stessa e di tutti; in Brasile, dopo il golpe militare del 1964, l’educazione popolare subisce una battuta d’arresto nei programmi di governo, ma riprende vita nelle attività delle Comunità ecclesiali di base, che proprio in questo periodo cominciano a diffondersi in tutto il paese. Esse contribuiscono alla resistenza contro la dittatura affiancando alla catechesi popolare l’educazione di base, impegnandosi sul problema della cittadinanza e dei diritti a essa legati e portando avanti le tematiche delle conferenze del Consiglio Episcopale Latino-americano. Queste Comunità si costituiscono come nuclei di persone che si riuniscono per comprendere alla luce dei testi sacri la realtà sociale del proprio villaggio o quartiere, prendendo in tal modo coscienza delle proprie condizioni di vita, della situazione politica ed economica della società in cui vivono e realizzare con consapevolezza la rivendicazione dei propri diritti e la trasformazione della società. L’esercizio della cittadinanza parte quindi dalla lotta all’analfabetismo non solo dei bambini, ma anche degli adulti; l’apprendimento viene rivolto alla coscientizzazione popolare e l’educazione diventa allora, secondo la definizione di Freire, una pratica di libertà: è la pedagogia degli oppressi, o per estensione concettuale, la pedagogia della liberazione.
La Teologia della Liberazione si è estesa anche alla riflessione filosofica, dando origine e impulso alla Filosofia della Liberazione, nata dal dibattito sull’esistenza o meno di una filosofia propriamente latino-americana e impegnata nella proposta di soluzioni universali dal punto di vista culturale locale, il cui massimo esponente è l’argentino naturalizzato messicano Enrique Dussel, nella cui vasta opera (che abbraccia anche una reinterpretazione delle idee di Marx) espande i concetti e i valori della Teologia all’etica e alla filosofia politica, fino al tema dell’identità fra discendenza coloniale, indipendenza nazionale e interdipendenza globale. In tempi recenti la commistione di temi filosofici e di visioni politico-teologiche ha portato all’avvicinamento della Teologia della Liberazione con i movimenti altermondialisti ed ecologisti, in aperta critica al neoliberismo e in favore di un’attività democratica di base e dell’armonia tra umanità e natura.
Vita e opere
Paulo Freire nasce a Recife, capitale del Pernambuco, in una famiglia del ceto medio, ma sin da bambino conosce la miseria a causa degli effetti della Grande Depressione del 1929. Entra all’Università di Recife nel 1943, iscrivendosi alla Facoltà di Diritto, ma dedicandosi al contempo allo studio della filosofia del linguaggio; non esercita poi la professione di avvocato per cui si è laureato, bensì sceglie di lavorare come professore di lingua portoghese nella scuola media. Sposa una collega di lavoro, Elza Maria Costa de Oliveira, l’incontro con la quale è stato decisivo per il suo cambio di prospettiva di lavoro, e nel 1946 viene nominato direttore del Dipartimento di Educazione e Cultura del Servizio Sociale dello stato del Pernambuco, dove inizia a lavorare a contatto con le classi povere e analfabete. Intanto il Brasile conosce un periodo di forte sviluppo economico e di apertura politica, anche grazie ai presidenti Juscelino Kubitschek e João Goulart, che tra l’altro promuovono la lotta all’analfabetismo; nel 1961 Freire diventa direttore del Dipartimento di Diffusione Culturale dell’Università di Recife e nello stesso anno realizza con la sua équipe le prime esperienze di alfabetizzazione popolare, alla base di quello che diventerà noto come Metodo Freire. Il suo gruppo ottiene nel 1963 un risultato eccezionale: nel Rio Grande del Nord realizza l’alfabetizzazione di 300 adulti, tutti raccoglitori di canna da zucchero, insegnando loro a leggere e a scrivere in appena 45 giorni. In risposta a un tale risultato il presidente Goulart, impegnato nelle riforme di base, approva l’adozione di quell’esperienza nel Piano Nazionale di Alfabetizzazione, in cui si prevedeva la formazione in massa di educatori e l’impianto di ventimila nuclei detti “circoli di cultura” in tutto il Paese.
Pochi mesi dopo l’inizio dell’attuazione del Piano, però, il golpe militare del 1964 pone fine a questo sforzo. Freire, accusato di tradimento, viene dapprima incarcerato per settanta giorni, poi condannato all’esilio; dopo un breve periodo a La Paz, in Bolivia, si trasferisce in Cile dove lavora per il Movimento di Riforma Agraria della Democrazia Cristiana e per l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Agricoltura e l’Alimentazione. Scrive il suo primo libro nel 1967, Educazione come pratica della libertà, basato sulla tesi che aveva presentato una decina d’anni prima per concorrere alla cattedra di Storia e Filosofia dell’Educazione nella Scuola di Belle Arti dell’Università di Recife; il libro viene ben accolto e Freire riceve l’invito come professore in visita all’Università di Harvard. L’anno successivo scrive la sua opera più importante, Pedagogia degli oppressi, pubblicata in varie lingue tra cui spagnolo, inglese e perfino ebraico, ma rimane proibita in Brasile fino al 1974, quando il regime militare inizia una moderata apertura politica. Dopo aver passato un anno a Cambridge, Freire si trasferisce in Svizzera, a Ginevra, lavorando come consigliere per l’educazione nel Consiglio Mondiale delle Chiese: durante questo periodo lavora alle riforme educazionali in varie ex-colonie portoghesi in Africa, in particolare nella Guinea-Bissau e in Mozambico, producendo materiali che saranno poi raccolti in un’altra opera di rilievo, Lettere alla Guinea-Bissau: registro di una esperienza in cammino, testimonianza di un lungo lavoro e di un profondo coinvolgimento etico e politico.
Con l’amnistia concessa dal regime militare, Freire rientra in Brasile nel 1980, si affilia al Partito dei Lavoratori nella città di San Paolo e lavora come supervisore del programma del partito per l’alfabetizzazione degli adulti, venendo in seguito nominato segretario per l’educazione e fondando il MOVA (Movimento di Alfabetizzazione), un modello di programma pubblico per il supporto alle sale comunitarie per l’educazione di giovani e adulti; sul piano della produzione teorica, nel corso degli anni Ottanta collabora con altri pedagogisti e filosofi, tra cui il connazionale Sérgio Guimarães, lo statunitense Ira Shor e il cileno Antonio Faundez, pubblicando una serie di libri costituiti da dialoghi. La moglie Elza muore nel ’86 e due anni dopo Freire sposa Ana Maria Araújo, sua amica d’infanzia e allieva nel corso magistrale della Pontificia Università Cattolica di San Paolo, che diverrà curatrice delle successive edizioni delle sue opere, raccolte in un archivio all’origine della creazione dell’Istituto Paulo Freire, costituito nel 1991 per diffonderne ed elaborarne le idee attraverso attività e iniziative a livello mondiale. Negli ultimi anni di vita il pedagogista continua incessantemente a lavorare e a scrivere libri, tra cui vale la pena ricordare Pedagogia della speranza: un rincontro con la pedagogia degli oppressi, in cui rivaluta a distanza di quasi trent’anni le idee espresse in quell’opera e cosa ne è rimasto, rispondendo anche ad alcune critiche che nel frattempo sono state avanzate, e Pedagogia dell’autonomia, ultimo scritto pubblicato in vita, in cui riunisce un insieme di saperi necessari alla pratica educativa, quasi un manuale di formazione per gli educatori che riafferma la necessità della coerenza tra pensiero, sentimento e pratica quotidiana per un’educazione critica. Paulo Freire muore nel maggio del 1997 per un attacco cardiaco; nel 2009 il Ministero della Giustizia brasiliano ha fatto richiesta di perdono post mortem alla famiglia per la condanna all’esilio durante il regime militare.
Nel corso della sua carriera è divenuto fonte di ispirazione per generazioni di educatori e professori, specialmente in America Latina e in Africa; è stato omaggiato da università come Cambridge, Oxford e Harvard, che lo hanno insignito del titolo di Dottore Honoris Causa. Il 13 aprile 2012 il governo del Brasile lo ha dichiarato Patrono dell’Educazione Brasiliana.
Il “Metodo Freire”: una pedagogia per la liberazione
La pratica pedagogica di Freire si fonda sull’idea che lo studente può assimilare l’oggetto di studio tramite una pratica dialettica con la realtà, in contrapposizione a ciò che lui ritiene un’educazione “bancaria”, tecnicista e alienante, che riduce l’allievo a un conto da riempire di informazioni: l’allievo, al contrario, può creare la sua stessa educazione costruendo da sé il proprio percorso, anziché seguirne uno precostituito; liberandosi da cliché alienanti, cioè, lo studente crea e segue il corso del suo apprendimento. In questo processo, l’allievo prende coscienza di ciò che sta studiando poiché si tratta del suo ambiente, della realtà in cui vive, apprendendo a essere partecipe di quanto lo circonda e di cui ha già esperienza. Questa visione è influenzata dall’idea marxista secondo cui non esiste un’educazione neutra, in quanto ogni atto educativo è un atto politico.
Il cosiddetto Metodo Freire consiste in una proposta per l’alfabetizzazione degli adulti sviluppata a partire dalle esperienze del pedagogista brasiliano in qualità di direttore del Dipartimento di diffusione culturale dell’Università di Recife, dove aveva formato il gruppo di lavoro per alfabetizzare 300 tagliatori di canna da zucchero, ottenendo il risultato voluto in 45 giorni. Freire critica il sistema tradizionale basato sull’uso dell’abbecedario come strumento centrale della didattica per l’insegnamento della lettura e della scrittura: gli abbecedari insegnano attraverso la ripetizione di parole isolate o di frasi create in maniera forzata; al contrario Freire ritiene necessario partire dalle parole che descrivono la realtà degli allievi, ricostruirne cioè l’universo del vocabolario per poterne estrarre le parole generatrici.6
Il processo proposto da Freire inizia dalla ricerca congiunta di professori e allievi delle parole e dei temi più significativi della vita di questi ultimi. Attraverso conversazioni informali, momento di conoscenza e avvicinamento reciproci, l’educatore presta attenzione ai vocaboli più usati dagli allievi e dalla loro comunità, il loro linguaggio tipico, scegliendo così le parole che serviranno da base per le lezioni, dette appunto “generatrici”; la quantità di queste parole è solitamente una ventina, selezionate seguendo criteri di ricchezza fonetica e difficoltà, in una sequenza graduale dalle più semplici alle più complesse. In seguito esse vengono presentate su cartoncini illustrati, il cui significato in relazione alla comunità viene stabilito nelle discussioni all’interno dei circoli di cultura, luogo di formazione alternativo alla scuola tradizionale. Si continua con la sillabazione: una volta identificate, le parole generatrici sono studiate attraverso la divisione sillabica, in maniera simile al metodo convenzionale, in cui ogni sillaba si dispiega nella rispettiva famiglia sillabica con cambiamento della vocale. Il passo seguente è la formazione di parole nuove, usando le famiglie sillabiche ora conosciute, ricreando al contempo situazioni esistenziali caratteristiche del gruppo di allievi; si tratta di situazioni inserite nella realtà locale, che vanno discusse con l’intento di aprire prospettive di analisi critica e cosciente dei problemi locali, regionali e nazionali. Punto fondamentale del metodo è la coscientizzazione, la discussione sui diversi temi sorti a partire dalle parole generatrici: alfabetizzare, secondo Freire, non può ridursi ai processi codificazione e decodificazione, quindi l’educazione degli adulti implica la presa di coscienza a proposito dei problemi quotidiani, la comprensione del mondo e la conoscenza della realtà sociale. Per questo, dopo le fasi dell’investigazione per la ricerca di parole generatrici e della tematizzazione per la comprensione critica della realtà cui esse si riferiscono, la fase successiva e in qualche modo finale è quella della problematizzazione, in cui il professore stimola e ispira gli allievi a superare una visione magica e acritica del mondo in favore di una posizione consapevole.
La radicalità di questo metodo risulta tanto più comprensibile quanto più la si inquadra nell’ambito delle pedagogie alternative7, sorte non solo in un periodo di fermento culturale internazionale estremamente favorevole al superamento di modelli ormai vecchi, ma soprattutto in relazione a società molto diverse da ciò che ancora oggi si considera come l’Occidente. Ciò nella prospettiva di un risveglio delle classi subalterne e di un cambiamento epocale rispetto alle ipocrisie di una patina democratica che spesso giustificava oppressioni e gerarchie sociali risalenti a secoli di sfruttamento coloniale e interno. La pedagogia freiriana è anzitutto un metodo di socializzazione, di stimolo alla presa di coscienza da parte degli oppressi perché possano entrare costruttivamente a far parte della cultura, tanto nella sua fruizione quanto nella sua produzione. Eliminare la paura della libertà e formare educatori nuovi, uomini nuovi aperti al dialogo con il popolo, è un obiettivo umanista di politica radicale, il primo vero passo verso la liberazione attraverso la partecipazione e la comunione. L’educazione problematizzante forma soggetti aperti alla ricerca dell’auto-miglioramento, a quell’essere di più che è il fondamento della liberazione, dell’emancipazione improntata, certo, a una visione utopica, ma che esprime una fede nell’umanità spesso e volentieri umiliata dall’ideologia dell’efficienza e dalla disumanizzazione del potere.
Il regime militare brasiliano sostituirà il Metodo Freire con il progetto del MOBRAL (Movimento Brasileiro de Alfabetização), volto a fornire un livello di alfabetizzazione di giovani e adulti adeguato allo sviluppo economico del paese; sebbene caratterizzato da una diversa impostazione ideologica, tale movimento aveva acquisito alcuni punti del Metodo Freire come l’uso di parole generatrici e la valorizzazione di esperienze significative degli allievi, ma un’essenziale differenza stava nell’uniformazione del materiale utilizzato in tutto il territorio nazionale, senza tener conto del linguaggio e delle necessità dei popoli di ogni regione. Nel MOBRAL, insomma, il Metodo Freire è stato reso una pratica funzionale non di libertà, secondo la definizione freiriana, bensì di integrazione al “modello brasiliano” di società civile e politica. Questo progetto, interamente a carico dello Stato, subirà negli anni modifiche e tagli dovuti alla recessione economica, che non consentiva il mantenimento degli alti costi di funzionamento, fino alla ricollocazione dei suoi programmi in fondazioni private.
Nel pensiero di Freire è centrale l’idea che gli esseri umani sono in relazione tra di essi e con il mondo, creano e ricreano la propria cultura; la natura dell’educazione è in sé dialogica, mediata dalla conoscenza: il dialogo tra le differenze serve sempre a comprenderle, essendo imprescindibile il rispetto profondo per l’altro, per l’identità dell’alunno e del professore, per la creatività, per la critica. Il fondamento del dialogo, per Freire, è dunque l’amore per il mondo e le persone, l’umiltà, la fede nell’umanità, la speranza. L’educatore svolge una pratica dialogica con l’allievo e in ciò deve affrancarsi da quelle forme di trasmissione del sapere che negano la costruzione della conoscenza, la creazione e ricreazione del sapere conforme al divenire costante della realtà; l’autoritarismo nella scuola è appunto assenza di dialogo, assenza di comprensione e umiltà, promozione di posizioni passive negli allievi, i quali semplicemente ricevono l’educazione come se fosse un pacchetto, un trasferimento di conoscenza “bloccata”, invece di esse convocati ad apprendere, interiorizzare e creare il proprio sapere. Un’educazione liberatrice deve al contrario rispettare le capacità e stimolare la spontaneità innata degli allievi, senza essere spontaneista: insegnare e apprendere sono fasi di un processo dialettico tra professore e allievo in cui il contenuto, ossia l’oggetto della conoscenza, è in rapporto a entrambi i soggetti e quindi può esplicarsi nel dialogo in tutte le sue dimensioni.
L’opera di Paulo Freire, soprattutto in tempi di tecnicizzazione esasperata della produzione del sapere volta al profitto, può essere considerata, da un lato, come un esperimento ormai superato di pedagogia radicale, dall’altro come un possibile elemento di contro-cultura antiliberista, la possibilità di un’alternativa teoricamente rinnovabile, la dinamicità di una pedagogia antiautoritaria, dialogica e interattiva che cerca costantemente la coerenza, la relazione tra pratica e teoria, la formazione permanente, la partecipazione e il dialogo, riscattando il potere dei diversi soggetti della pratica pedagogica: soggetti storico-sociali di cultura, di conoscenza, di potere e, in fondo, d’amore.
Bibliografia minima
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- Bourne R., Getúlio Vargas – A Esfinge dos Pampas, Geração Editorial, São Paulo 2012
- Dewey J., Comunità e potere, La Nuova Italia, Firenze 1971
- Freire P., Educação como pratica da liberdade, Paz e Terra, Rio de Janeiro 1967 (trad. it. Educazione come pratica di libertà, Mondadori, Milano 1974
- Freire P., Extensão ou Comunicação?, Paz e Terra, Rio de Janeiro 1968
- Freire P., Pedagogia do oprimido, Ed. Zahar, Rio de Janeiro 1970 (trad.it. La pedagogia degli oppressi, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2002)
- Freire P., Educazione, liberazione e chiesa, in Teologie dal Terzo Mondo. Teologia nera e teologia latino-americana della liberazione, Giornale di Teologia n.76, Editrice Querininana, Brescia 1974
- Freire P., Pedagogia da esperança : um reencontro com a pedagogia do oprimido, Rio de Janeiro, Paz e Terra, 1992 (trad.it. Pedagogia della speranza. Un nuovo approccio alla pedagogia degli oppressi, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2007)
- Freire P., Pedagogia da autonomia. Saberes necessários à prática educativa, Rio de Janeiro, Paz e Terra, 1997 (trad.it. Pedagogia dell’autonomia. Saperi necessari per la pratica educativa, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2004)
- Freitas M. C., Biccas M., Historia social da educação no Brasil (1926-1996), Cortez Editora, São Paulo, 2009
- Illich I., Descolarizzare la società, Mondadori, Milano 1972
- Lapassade G., L’autogestione pedagogica, Angeli, Milano 1973
- Mariano, N., As Garras do Condor, Vozes, São Paulo 2003
- Souza A.I. (a cura di), Paulo Freire: vida e obra, Expressão Popular, São Paulo 2001
- Pati L., Pedagogia della comunicazione educativa, Editrice La Scuola, Brescia 1984
Note
1 Cfr. Pedagogia do oprimido, Ed. Zahar, Rio de Janeiro 1970 (trad. it. La pedagogia degli oppressi, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2002).
2 Cfr. Bourne R., Getúlio Vargas – A Esfinge dos Pampas, Geração Editorial, São Paulo 2012.
3 Cfr. Mariano N., As Garras do Condor, Vozes, São Paulo 2003.
4 Cfr. Gutiérrez G., Teologia della liberazione. Prospettive, Queriniana, Brescia 1972.
5 Cfr. Boff L., Teologia della cattività e della liberazione, Queriniana, Brescia 1977.
6 Cfr. Educação como pratica da liberdade, Paz e Terra, Rio de Janeiro 1967 (trad. it. Educazione come pratica di libertà, Mondadori, Milano 1974).
7 Si pensi in primo luogo alla descolarizzazione proposta da Ivan Ilich in Descolarizzare la società (1970); ma anche alle teorie sul rapporto tra educazione, comunicazione e democrazia di John Dewey in Democrazia e educazione (1916) e all’educazione del pensiero come indagine guidata dalla logica in Come pensiamo (1910).