Attualità della pedagogia radicale per la reticolarità dell’educazione tra Freire, Illich, don Milani e Luhmann

Pubblicato in “Il Nodo” (Falco Editore), supplemento al n. 50 (dicembre 2020).

  • Pedagogia radicale e educazione reticolare
  • L’educazione è un atto politico
  • L’istituzione scolastica indottrina gli allievi
  • La società elitaria si perpetua attraverso le sue scuole
  • Sfida con il funzionalismo e necessaria sintesi
  • Biblioteca pubblica, esempio di agenzia educativa

Pedagogia radicale e educazione reticolare

Il mondo globalizzato, con le nuove tecnologie della comunicazione e dell’informazione, la crescente integrazione sistemica di servizi e luoghi di lavoro e di incontro, almeno nelle società ad alto sviluppo tecnico, è ormai caratterizzato da un’evoluzione sempre più rapida delle strutture sociali, economiche e politiche, dove la partecipazione dei cittadini sembra colta in una contraddizione fondamentale: grande accessibilità alle telecomunicazioni, accompagnata dalle difficoltà di adattamento ai mezzi tecnici che rendono tale accessibilità possibile. Tra le molte difficoltà riscontrabili, alcune delle maggiori riguardano la capacità d’uso dei mezzi tecnici; la preparazione intellettuale (ma si potrebbe ben dire anche morale) al tipo di interazioni virtuali e telematiche tra persone spesso ridotte a identità digitali bidimensionali; non da ultimo, la transizione dai modelli di selezione, filtro, analisi e diffusione delle informazioni, a modelli di informazione diretta e non elaborata, cui fanno capo l’opportunità di uscire da possibili monopoli della comunicazione e il rischio di manipolazioni e inverificabilità di fonti e notizie. Dal punto di vista pedagogico, la cosiddetta società della conoscenza pone pertanto due ordini generali di necessità educative: l’educazione digitale, con cui fornire linee guida e strumenti di elaborazione delle informazioni e uso consapevole dei mezzi tecnici (tanto per l’apprendimento personale, quanto per l’accesso concreto ai serivizi), e lo sviluppo sistematico dell’intelligenza critica, capace di discernere tra le fonti, risolvere questioni interpretative, portare avanti lo sviluppo culturale di idee e valori condivisi, mantenendo alta la vigilanza sulle forme e le relazioni di potere basate su interessi info-economici (non sempre evidenti).

Questi ordini generali di necessità educative si possono riassumere in una nuova lotta all’analfabetismo, nelle due fattispecie oggi ben note – e interconnesse a vari livelli – dell’analfabetismo di ritorno, endemico della fase di transizione alla società ipertecnologica, e dell’analfabetismo funzionale, frutto anche di una frammentazione dei processi di apprendimento in un ambiente informatico tendente all’atomizzazione dei rapporti e a una sorta di malintesa “indipendenza” nella formazione dei giudizi, priva di linee guida per un corretto sviluppo (per esempio, l’incapacità di comprendere il significato di un testo in sé leggibile, implica la difficoltà o mancanza di approfondimento dimensionale del discorso). Una tale lotta, un tale impegno pedagogico, deve perciò basarsi tanto sulla comprensione del ruolo e del funzionamento della tecnologia in seno alla società, quanto sull’attenzione alla crescita personale degli individui nella loro qualità di soggetti individuali e collettivi, ossia di cittadini attivi; l’educazione, in quanto processo sociale, deve pertanto diffondersi nelle reti informative e innestarsi in ogni ambiente, reale e virtuale, seguendo i modelli non gerarchici di organizzazione delle reti stesse, già adottati sul piano amministrativo istituzionale.

L’educazione reticolare è quindi un possibile orizzonte teorico-pratico della lotta ai nuovi tipi di analfabetismo e alle loro conseguenze. Il punto di vista teorico, che qui ci interessa in particolare, può avvalersi di motivi socio-politici radicali tornati di grande attualità, in quanto l’apertura strutturale della società odierna sta attuando, attraverso l’alto tenore tecnologico e le spinte – di certo ambigue – verso una sempre maggiore libertà individuale, alcune forme e visioni critiche rivoluzionarie sviluppate negli anni della contestazione sociale, all’epoca sorte in ambienti universitari e lavorativi contro strutture politico-economiche omologanti e conformistiche, la cui sostanza di apertura creativa al dinamismo eterodosso si può ritrovare oggi in diverse nuove strutture della vita quotidiana.

Tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta, parallelamente alla formazione delle scienze dell’educazione propriamente dette1, si è infatti sviluppata la pedagogia critica, basata su una concezione politica dell’educazione e concentrata sullo sviluppo delle capacità critiche del soggetto, sull’intelligenza creativa capace non solo di partecipare ai processi produttivi e decisionali in modo esecutivo, ma anche di metterli in questione, proporre soluzioni alternative, porre l’attenzione su problemi lasciati in secondo piano e via dicendo. I fondamenti teorici di questa pedagogia sono mutuati da varie correnti di pensiero, la più importante delle quali è la teoria critica della società, elaborata dagli esponenti della Scuola di Francoforte2. La critica della società di massa, dell’industria culturale, delle tensioni ideologiche sottese ai cambiamenti sociali ed economici, della tendenza all’omologazione e alla riduzione del cittadino a esecutore e consumatore, sono tematiche la cui influenza sui problemi pedagogici è rintracciabile ancora nelle diatribe che caratterizzano il dibattito attuale sull’educazione, e che in passato hanno favorito il sorgere di proposte “estreme” e decisamente creative. Altri riferimenti sono il personalismo cristiano di Mounier e Maritain, la pedagogia marxista (con particolare attenzione a Gramsci) e la Teologia della Liberazione. Concentriamo la nostra attenzione su tre autori internazionali che possiamo appunto definire radicali, ossia Paulo Freire, Ivan Illich e don Lorenzo Milani, seguendo le linee generali delle loro proposte pedagogiche – espresse attraverso affermazioni simboliche – per poi delineare la sfida con la sociologia anti-umanista di Luhmann e le correnti del funzionalismo pedagogico da questa ispirato, al fine di comprendere quanto la separazione in voga in questi primi decenni del XXI secolo sia in realtà deleteria, per quanto comprensibile. Infine, concludere con un accenno alla pratica pedagogica extrascolastica considerando le possibilità e il valore sociale della biblioteca pubblica come agenzia educativa in posizione strategica all’interno delle reti informative ed educative, tanto dalla prospettiva funzionalistica che da quella critica.

L’educazione è un atto politico

Paulo Freire è il fautore dell’educazione dialogica. La sua pratica pedagogica si fonda sull’idea che lo studente può assimilare l’oggetto di studio tramite una pratica dialettica con la realtà, in contrapposizione a ciò che egli ritiene un’educazione “bancaria”, tecnicista e alienante, che riduce l’allievo a un conto da riempire di informazioni. L’allievo, al contrario, può creare la sua stessa educazione costruendo da sé il proprio percorso, anziché seguirne uno precostituito. In questo processo, l’allievo prende coscienza di ciò che sta studiando poiché si tratta del suo ambiente, della realtà in cui vive e di cui ha già esperienza. Questa visione è influenzata dall’idea secondo cui non esiste un’educazione neutra, in quanto ogni atto educativo è un atto politico; una prospettiva maturata da Freire durante l’ esilio imposto dalla dittatura militare brasiliana, che lo porta a viaggiare tra gli USA e l’Europa. La differenza tra l’atmosfera politica dell’insegnamento in America Latina e l’ostentata neutralità di quello europeo, segna la differenza tra la concezione educativa come atto politico e quella dell’educazione come scienza, ovvero tra un’educazione immersa nei rapporti reali e una impostazione pedagogica basata su astrazioni concettuali, conseguente all’idea cristallizzata dei ruoli tra professore che trasmette il sapere e studente che la riceve3.

«L’affermazione che l’educazione è neutra, in molti momenti, è più di una semplice affermazione. Alla stessa maniera di quando uno scienziato dice all’allievo: ora hai smesso di essere scienziato perché hai giudicato la realtà, e la realtà è lì perché parliamo di essa, semplicemente per farne una descrizione, non per essere giudicata. Al massimo per essere trasformata. Ed è interessante osservare come l’ideologia dominante, cristallizzandosi in frasi del genere, cerca di assumere o esprimere il peso di una verità irriducibile a sofisma, che non può essere distorta. Tu hai ragione: enfatizzando la apoliticità della scienza e dell’educazione, la loro politicità ne risulta sottolineata. La negazione della politicità è infine percepita come un atto politico» 4.

Freire critica il sistema tradizionale basato sull’uso dell’abbecedario come strumento centrale della didattica per l’insegnamento della lettura e della scrittura: gli abbecedari insegnano attraverso la ripetizione di parole isolate o di frasi create in maniera forzata; al contrario Freire ritiene necessario partire dalle parole che descrivono la realtà degli allievi, ricostruirne cioè l’universo del vocabolario per poterne estrarre le parole generatrici. Il processo inizia dalla ricerca congiunta di professori e allievi delle parole e dei temi più significativi della vita di questi ultimi. Una volta individuato questo vocabolario, si apre la discussione sui diversi temi sorti a partire dalle parole generatrici: alfabetizzare, secondo Freire, non può ridursi ai processi codificazione e decodificazione, quindi l’educazione implica la presa di coscienza a proposito dei problemi quotidiani, la comprensione del mondo e la conoscenza della realtà sociale. Per questo, dopo le fasi dell’investigazione sulle parole e della tematizzazione rispetto alla realtà cui esse si riferiscono, la fase finale è quella della problematizzazione, in cui l’insegnante stimola e ispira gli allievi a superare una visione “magica” e acritica del mondo in favore di una posizione consapevole5. La radicalità di questo metodo risulta tanto più comprensibile quanto più la si inquadra nell’ambito delle pedagogie alternative, anticonformiste, antiformaliste e orientate alla creatività e al dissenso, sorte in un periodo di fermento culturale internazionale estremamente favorevole al superamento di modelli ritenuti ormai vecchi, inadeguati e autoritari. Tutto ciò nella prospettiva di un risveglio delle classi subalterne, di un cambiamento epocale rispetto alle ipocrisie di una patina democratica che, spesso, giustificava oppressioni e gerarchie sociali, risalenti a secoli di sfruttamento coloniale e interno. La pedagogia freiriana è anzitutto un metodo di socializzazione, di stimolo alla presa di coscienza da parte degli oppressi perché possano entrare costruttivamente a far parte della cultura, tanto nella sua fruizione, quanto nella sua produzione. Eliminare la paura della libertà e formare educatori nuovi, uomini nuovi aperti al dialogo con il popolo, è un obiettivo umanista di politica radicale, il primo vero passo verso la liberazione attraverso la partecipazione e la comunione. L’educazione problematizzante forma soggetti aperti alla ricerca dell’auto-miglioramento, a quell’essere di più che è il fondamento della liberazione, dell’emancipazione improntata sì a una visione utopica, ma che esprime una fede nell’umanità spesso e volentieri umiliata dall’ideologia dell’efficienza e dalla disumanizzazione del potere.

L’istituzione scolastica indottrina gli allievi

Ivan Illich6 propone la descolarizzazione della società. Secondo Illich, la formazione scolastica tradizionale ha come obiettivo la professionalizzazione degli individui, in modo da renderli funzionali alle esigenze economiche; ha perciò una natura manipolatoria, in quanto spinge ad accettare il controllo e la gerarchia nella società, preparando il terreno attraverso la separazione del sapere e la sacralizzazione del ruolo dell’insegnante. La soluzione risiede nell’esatto contrario: abolire l’istituzione scolastica, sostituirla con «trame dell’apprendimento», una specie di tessuto che coinvolge l’intera società, che diventa in tal modo una società educante, in cui l’apprendimento è libero e costante attraverso la convivialità. La descolarizzazione mira dunque a riportare in seno alle strutture della vita associata il compito di educare e formare i giovani, rendendo l’apprendimento informale e onnipresente. La scuola formalizzata, al contrario, sequestra l’infanzia, rende profetiche le lezioni, appiattisce l’apprendimento sull’insegnamento e trasforma la conoscenza in un “rito d’iniziazione” al culto del progresso. Spostare l’apprendimento da un luogo deputato e sacralizzato, a vari momenti della vita in società, stimolando il senso della scoperta e l’indipendenza della propria formazione, può dare a ogni persona la possibilità di trasformare ogni fase della sua vita in un’occasione di partecipazione, interessamento e crescita. Ciò, naturalmente, non è semplice e nemmeno esente da rischi:

«La società contemporanea è un prodotto di piani ben precisi ed è nel loro ambito che devono essere progettate le occasioni da offrire a chi vuole apprendere. L’affidamento all’istruzione specialistica e a tempo pieno mediante la scuola è ormai destinato a diminuire e dovremo trovare altri modi di imparare e di insegnare: bisognerà che tornino ad aumentare le qualità didattiche di tutte le istituzioni. Ma è una previsione molto ambigua. Potrebbe infatti significare che nella città moderna gli uomini saranno sempre più vittime di un processo di manipolazione totale, una volta che saranno stati privati persino di quella tenue parvenza di indipendenza critica che oggi la scuola umanistica fornisce se non altro ad alcuni dei suoi allievi. Ma potrebbe anche significare che gli uomini smetteranno di ripararsi dietro i diplomi acquisiti a scuola e troveranno così il coraggio di “alzare la voce” e quindi controllare e guidare le istituzioni delle quali fanno parte. Per arrivare a questo dobbiamo imparare a determinare il valore sociale del lavoro e dello svago in funzione degli scambi d’insegnamenti cui possono dare occasione. La partecipazione effettiva alle scelte politiche di una strada, di un luogo di lavoro, di una biblioteca, di un mezzo d’informazione o di un ospedale è quindi il metro migliore per misurare il loro livello come istituzioni educative»7

La descolarizzazione dovrebbe essere sostanzialmente un processo sociale di espansione delle agenzie educative, che può dispiegarsi attraverso strutture pedagogiche diffuse tra tutte le istituzioni. Illich propone quattro reti, da intendersi come nuove strutture di rapporti che facilitino l’accesso alle risorse didattiche a chiunque le cerchi per istruirsi. Mettendo da parte la figura dell’educatore professionista, l’intento del sociologo è delineare quei procedimenti che rendano l’apprendimento autonomo e personalizzato dal discente stesso: i «servizi per la consultazione degli oggetti didattici», come le biblioteche, i laboratori, i musei e tutte quelle esposizioni aperte da utilizzare nei luoghi di lavoro o di passaggio, costantemente a disposizione degli studenti; le«centrali delle capacità», dove gli individui possano far conoscere le proprie capacità e come e dove queste possano essere imparate da chi voglia apprenderle; l’«assortimento degli eguali», ossia reti di comunicazione in cui possano incontrarsi persone con gli stessi obiettivi di apprendimento; e i «servizi per la consultazione di educatori in genere», professionali, paraprofessionali e liberi operatori, raggiungibili tramite un registro degli indirizzi e selezionabili tramite descrizioni dei servizi che possono fornire, e valutazioni date dagli utenti (impossibile non ritrovarvi similitudini con quanto si compie oggi su Internet).Il circuito formativo alternativo, così creato, sostituisce la scuola e favorisce «la rinascita dell’uomo epimeteico», ossia colui che apprende dopo aver fatto l’esperienza.

La società elitaria si perpetua attraverso le sue scuole

Don Lorenzo Milani8 denuncia l’elitarismo della scuola e l’immobilismo sociale che perpetua. L’esperienza di don Milani ha già un’impostazione più classica, in quanto contraria alla descolarizzazione. La sua scuola, ben localizzata nel tempo (gli anni Sessanta) e nello spazio (Vicchio, un paese rurale dell’Appennino), è concepita in aperta opposizione con il classismo della scuola borghese del resto d’Italia, in cui discriminazione sociale e separazione tra mondo della cultura e mondo del lavoro sono la normalità. Il primato dello insegnamento linguistico è la base della congiunzione tra studio e lavoro, portato avanti durante l’intera giornata attraverso la discussione e la scrittura, per riappropriarsi del linguaggio, dell’espressione e dunque dell’autonomia di pensiero. La cultura legata al lavoro è perciò riaffermata come chiave dell’emancipazione sociale. La famosa Lettera a una professoressa rappresenta un atto di accusa e insieme un manifesto contro la scuola che respinge i figli delle classi subalterne verso i campi e le fabbriche, giudicandoli in base a una cultura considerata “bassa”, quando non del tutto inferiore. La concezione della scuola borghese è di una continua corsa ai risultati, al voto migliore, al conseguimento del diploma, senza alcun interesse nello sviluppo della curiosità e della voglia di apprendere. L’esame, in base a cui è strutturata l’intera istituzione, è lo spartiacque con cui si favorisce l’immobilità sociale, si nega l’accesso alla classe dirigente di chi non è sufficientemente competitivo e, fuori di retorica, già appartenente all’élite.

«A Borgo il preside ha concesso un’aula ai ragazzi di terza media per un ballo con le compagne. I salesiani, per non essere da meno, organizzano il corso mascherato. Un professore che conosco si fa vedere con la Gazzetta dello Sport in tasca. Sono uomini pieni di comprensione per le “esigenze” dei giovani. Del resto è comodo accettare il mondo così com’è. Un insegnante con la Gazzetta in tasca s’intende bene con un babbo operaio con la Gazzetta in tasca, per parlare d’un figliolo col pallone sotto braccio o d’una figliola che sta un’ora dal parrucchiere. Poi l’insegnante fa un piccolo segno sul registro e i figlioli dell’operaio vanno a lavorare quando ancora non sanno leggere. I figlioli dell’insegnante seguitano a studiare a oltranza anche se “non ne hanno voglia” o “non capiscono nulla”. A questo punto ognuno se la prende con la fatalità. È tanto riposante leggere la storia con la chiave della fatalità, Leggerla in chiave politica è più inquietante: le mode diventano parte d’un piano ben calcolato perché Gianni resti tagliato fuori. L’insegnante apolitico diventa uno dei 411.000 utili idioti che il padrone ha armato di registro e pagella. Truppe di riserva incaricate di fermare 1.031.000 Gianni l’anno, nel caso che il gioco delle mode non bastasse a distrarli. Un milione e 31.000 di respinti l’anno. È un vocabolo tecnico di quella che voi chiamate scuola. Ma è anche un vocabolo di scienza militare. Respingerli prima che afferrino le leve. Non per nulla gli esami sono di origine prussiana»9.

In questo si può ravvisare lo scontro diretto con la riforma promulgata da Gentile negli anni del fascismo, fortemente gerarchica e separatrice tra classe dirigente e classi lavorative, sopravvissuta alla guerra e travasata nella ricostruzione democratica. La riforma possibile, proposta nella pratica da don Milani, è la scuola comunitaria, allargata, dove si lavora e si studiano la lingua e il mondo circostante (con letture e discussioni delle notizie), per arrivare in seguito agli insegnamenti superiori, le varie discipline organizzate relazionate tra di esse. Una scuola così riformata, abbandonando il principio selettivo della bocciatura, diventa una scuola emancipatrice e favorisce anche gli ultimi, contribuendo tanto alla mobilità sociale tramite l’educazione, quanto alla presa di coscienza dell’importanza di quanto studiato per la vita.

La sfida con il funzionalismo e la necessaria sintesi

Vale la pena soffermarsi, infine, sulla contrapposizione tra pedagogia critica e funzionalismo pedagogico, che polarizza il dibattito sull’educazione in questi primi decenni del XXI secolo. Il funzionalismo pedagogico è la corrente di pensiero che raccoglie le esperienze e i metodi delle scienze dell’educazione, si basa soprattutto sulla sociologia e le sue prospettive, proponendo una visione sostanzialmente neutrale della pedagogia. Indaga la funzione sociale dell’educazione, l’integrazione dei sistemi sociali con il mondo sempre più complesso del lavoro, per stimolare processi pedagogici atti a formare cittadini in grado di inserirsi nella società attuale, aperta e in continuo cambiamento, come membri produttivi in grado di contribuire responsabilmente. Lo studio della società come rete di apparati e di funzioni in cui il soggetto è collocato, è il punto di partenza per l’assunzione dei parametri in base ai quali impostare l’azione educativa. Secondo Niklas Luhmann10, la scuola è un sotto-sistema sociale che seleziona e conforma, guidata da una teoria pedagogica funzionale alla società che la esprime; il modello educativo di fine Ottocento era funzionale a una società a basso livello tecnologico, ma oggi il dinamismo dell’evoluzione tecnologica produce uno sviluppo tecnico molto rapido, e quindi trasformazioni costanti, rendono necessario un tipo di apprendimento altrettanto tecnico, in grado di fornire all’individuo gli strumenti e i metodi che gli servono per comprendere adeguatamente il mondo che lo circonda. Saperi e tecniche, insomma, che rendono efficace l’educazione ed efficiente il cittadino, di cui l’apprendimento per tutta la vita e l’imparare a imparare sono gli esempi principali. L’educazione tecnologica si risolve nella multimedialità, nell’uso delle macchine per imparare, nella logica computazionale, nell’acquisizione di informazioni, nello sviluppo delle competenze e nell’implemento della prestazione. Tutto questo sempre da una prospettiva scevra da valori morali o ideologici, “oggettiva” come deve essere l’approccio scientifico.

È evidente come questa linea di pensiero sia in netta asimmetria con le istanze della pedagogia critica: gli esponenti di quest’ultima accusano i tecnologi dell’educazione di ridurre l’allievo a un ingranaggio degli apparati sociali, perpetuando i modelli culturali dominanti e puntando a una formazione della persona in senso meramente esecutivo. La ricerca di una educazione al pensiero critico trova in Jürgen Habermas uno dei principali esponenti, con la sua teoria dell’agire comunicativo che richiede la preparazione critica del cittadino. La società civile e l’opinione pubblica sono il centro della vita sociale dell’individuo, la sfera pubblica è infatti lo spazio di incontro dei soggetti sociali che dialogano, ognuno presentando un proprio specifico linguaggio, determinato dal proprio bagaglio culturale e concettuale; per “soggetti sociali” si intendono non solo gli individui, ma i gruppi, compagini sociali accomunate da idee e sentimenti politici, religiosi, morali ed etici, su cui basano la propria identità. Nel momento in cui si incontrano e scambiano informazioni, contribuiscono a formare l’opinione pubblica, che poi influenzerà decisioni e tendenze collettive. Diventa perciò fondamentale la capacità di intendersi a vicenda, di comprendere cosa gli altri intendono quando usano determinate parole o concetti (per esempio, fare chiarezza su cosa si intenda per “libertà” o “uguaglianza” a seconda di chi usi tali concetti), capacità che deriva da una educazione razionale e critica, la quale non può essere neutrale nel momento in cui l’educazione stessa è espressione della società, quindi immersa nella tensione tra la riproduzione di questa e delle sue istanze ideologiche e il superamento verso forme nuove.

D’altro canto, gli esponenti delle teorie funzionaliste ritengono la pedagogia critica troppo politica, dettata da posizioni ideologiche molto precise e volta più a produrre dei contestatori radicali che delle intelligenze critiche. Il dibattito e lo scontro tra queste due correnti è aperto, di difficile composizione per la grande differenza di assunti di base ed è destinato a protrarsi per molto tempo; eppure, proprio in Italia si è avuto un tentativo di conciliazione tra le due prospettive, ancor prima che la contrapposizione assumesse queste dimensioni, nella teoria educativa di Maria Montessori, che soprattutto nei suoi ultimi anni11 congiunse il rigore dell’indagine scientifica applicata alla pedagogia, ritenuta “oggettiva e neutrale” per sua natura, con l’impegno sostanzialmente umanitario e politico di improntare la pedagogia all’educazione dei popoli alla pace e alla solidarietà, una educazione alla mondialità con cui l’educatrice riconosce in tutta evidenza una prospettiva organica della pedagogia, scientifica nei metodi e politica negli scopi.

Ma c’è ancora un punto da tenere a mente: tanto la pedagogia critica, col suo richiamo alle teorie politico-filosofiche di Habermas, tanto il funzionalismo pedagogico basato sulla sociologia di Luhmann, attingono in realtà alla stessa questione fondamentale della comunicazione, intesa come natura ultima della società e dei suoi rapporti. La famosa citazione di Luhmann «Gli esseri umani non possono comunicare, nemmeno i loro cervelli possono comunicare, nemmeno la loro coscienza può comunicare. Solo la comunicazione può comunicare»12, nella sua radicalità anti-umanista pone il problema della produzione costante di rapporti comunicativi, per cui anche la migliore intelligenza critica individuale deve necessariamente apprendere a utilizzare i mezzi attraverso cui tale produzione viene in essere. E al contempo, contestando l’anti-umanismo, che in ogni integrazione al sistema educativo-comunicativo è insita la necessità di una intelligenza creativa e consapevole per svilupparne le varie dimensioni di esistenza. Due prospettive complementari della pedagogia, insomma, radicalizzate da una specializzazione settoriale crescente nel corso dei decenni, che rischiano di perdere la visione organica dell’educazione che la Scuola Nuova e l’attivismo pedagogico avevano costruito.

Biblioteca pubblica, esempio di agenzia educativa

L’istituzione bibliotecaria è un luogo di conoscenza fondamentale, poiché conserva, amministra, diffonde e rende accessibile a tutti il sapere, le informazioni, la cultura13. Il valore educativo e sociale attuale delle biblioteche pubbliche, risiede nella possibilità di costituire un centro neurale delle possibili reti educative illichiane: attivo nella formazione della cittadinanza e attento al dibattito socio-politico e culturale, attraverso innovazioni nei servizi e l’aumento dell’integrazione del proprio lavoro nell’educazione non-formale e informale, tanto nella prospettiva del lifelong/lifewide learning, quanto in quella dell’elevazione del cittadino dalla passività all’azione partecipativa e alla consapevolezza politica. E su un duplice fronte, nazionale e locale: infatti, come le biblioteche nazionali costituiscono il luogo di raccolta e condivisione della produzione culturale di un intero paese, raccogliendo in sé tutti gli elementi memoriali e culturali di un popolo, allo stesso modo le biblioteche pubbliche locali raccolgono documenti sulla storia e l’identità del luogo in cui operano. Esse hanno pertanto la possibilità di coinvolgere la cittadinanza nella rivalutazione della sua propria identità culturale, così come della propria crescita in vista delle trasformazioni sempre più veloci della società nell’era delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione.

I processi di globalizzazione stanno ormai trasformando anche le piccole realtà; ciò influisce sulla vita concreta di ogni cittadino, in quanto membro di una società in continua espansione, sempre più complessa, composta da elementi interdipendenti che richiedono preparazione intellettuale e tecnica. Le difficoltà dei sistemi democratici di fronte alla complessità dell’economia senza limiti, della politica senza ideologia, dell’identità culturale senza confini, sono i sintomi di una crisi della cittadinanza e della partecipazione che apre le porte alla postdemocrazia14. L’avvento dell’era digitale sta modificando profondamente la comunicazione, non solo sul piano dei grandi mezzi di informazione, ma anche nel rapporto tra le persone: ovvero fornendo surrogati alla presenza fisica che implicano, sul lungo periodo, trasformazioni relazionali e persino antropologiche di difficile previsione. In questo sviluppo caotico, l’individuo rischia di rimanere schiacciato da una massificazione pervasiva e subdola, perdendo la capacità di partecipare ai processi collettivi e far contare la propria presenza.

La biblioteca pubblica si trova potenzialmente al centro della convergenza tra le istanze del funzionalismo pedagogico, le possibilità comunicative aperte dalle tecnologie digitali e la necessità di recupero della dimensione riflessiva e partecipativa dell’educazione critica. Ha la possibilità di porsi come luogo professionale e affidabile di incontro e formazione intellettuale e tecnica, di scambio di informazioni e discussione di temi di interesse generale e personale. Può infatti fornire quei contenuti culturali atti alla presa di coscienza individuale e collettiva dei saperi necessari. Spesso questa possibilità è messa in dubbio dalla convinzione che l’immediata disponibilità delle informazioni tramite il web renda superfluo il ricorso ai servizi bibliotecari; questa idea è rinforzata dalla percezione stereotipata della biblioteca quale luogo di studio per esperti, di difficile accesso e difficile fruizione, per cui non se ne valuta la natura inclusiva, gratuita e aperta dei servizi. Il suo valore sociale dovrebbe essere valorizzato da e per ogni cittadino, come centro di educazione permanente nell’orizzonte della società dell’informazione: è necessario porre un’attenzione speciale ai problemi della preparazione alla cittadinanza e della partecipazione democratica, in quanto costituiscono le finalità dell’educazione in sé. Educare nella società dell’informazione, vuol dire fornire a ogni persona i mezzi intellettuali per poter contribuire, con il proprio intelletto e la propria creatività, alla risoluzione dei problemi individuali e sociali. Allo stesso tempo, una partecipazione consapevole e attiva dei cittadini, che non vogliano rimanere semplici “numeri”, necessita di una adeguata preparazione, per poter sviluppare una coscienza critica del mondo circostante in grado di questionare le forme di potere che incidono sulla vita di ciascuno. Bisogna pertanto prendere coscienza del rapporto tra educazione, comunicazione e partecipazione alla vita democratica, rivolgendo questa coscienza all’azione relazionale.

Se ogni rapporto include in sé tanto i rischi quanto le opportunità, risulta evidente come le nuove tecnologie siano soprattutto un veicolo di trasmissione, conservazione e condivisione di conoscenze secondo possibilità quantitative e qualitative prima inimmaginabili. La società dell’informazione è una società in divenire: a ogni problema che si presenta, corrispondono analisi ed elaborazioni di strategie. Dunque la biblioteca pubblica, già inserita nel contesto dell’era digitale, non può che evolversi in armonia con i cambiamenti e gli aggiornamenti tecnologici della produzione del sapere; il problema risiede, in fin dei conti, nella volontà e nell’interesse politici a sfruttare una formidabile occasione di crescita.

La rete di comunicazione, come concetto, non è solo un’invenzione informatica, ma una realtà diffusa anche nell’organizzazione amministrativa delle città, delle imprese e della società stessa15. Ogni paese, ogni città, potrebbe formare una comunità di individui intorno alla biblioteca pubblica locale, la cui interazione sarebbe coadiuvata tramite internet; ognuna di queste comunità potrebbe interagire con le altre, proprio in virtù di una frammentazione sociale rivista in positivo, come insieme di elementi su un dato territorio. La rete comunicativa che ne risulterebbe, rispecchierebbe quella comunità dialogica in cui l’interazione tra individui porta alla collaborazione per soluzioni condivise, aumentando il proprio raggio d’azione nel dialogo tra gruppi sempre più estesi. Naturalmente, il capovolgimento in positivo di una caratteristica negativa parte proprio dall’educazione dei singoli a collaborare e a esser coscienti del proprio ruolo di cittadini: in ciò consiste parte del concetto di educazione reticolare, come progetto educativo che sintetizzi la preparazione all’uso delle tecnologie, perfettamente inserito nei tempi e modi attuali, con la preparazione critica e la crescita personale degli stessi individui, al fine di progredire.

In questo senso la biblioteca pubblica, oggi svalutata e ritenuta obsoleta, può invece svolgere un ruolo decisivo coinvolgendo la cittadinanza nella propria autoeducazione, tramite servizi concepiti proprio a tale scopo. Lo sviluppo, nell’ottica delle reti educative, di poli culturali al cui centro stia la biblioteca pubblica, intesa perciò come ente di educazione alla cittadinanza attiva, è necessario per il risveglio culturale e democratico del Paese. Ogni biblioteca ha la possibilità e il dovere di sviluppare attorno a sé una comunità di soggetti interagenti, attraverso iniziative concrete di attrazione del pubblico, quali ad esempio presentazioni e dibattiti su libri e film, conferenze letterarie e giornalistiche, organizzazione di corsi di formazione ed educazione all’utenza, all’uso dei mezzi della biblioteca, corsi rivolti agli anziani e agli stranieri ecc. L’implemento della comunicazione informatica può unire lo spazio virtuale di scambio di informazioni a uno spazio reale di incontro e confronto, cui i cittadini possano accedere liberamente per arricchirsi in modo reciproco e partecipare così, consapevolmente, al processo di sviluppo sociale e alla propria emancipazione.

Bibliografia

  • Donaggio E. (a cura di), La Scuola di Francoforte. La storia, i testi, Einaudi, 2005
  • Crouch C., Postdemocrazia, Laterza, 2003
  • Dall’Ò G., Smart City. La rivoluzione intelligente delle città, il Mulino, 2014
  • Cambi F., Le pedagogie del Novecento, Laterza, 2005
  • Ferrari M., Biblioteca e formazione della cittadinanza attiva nell’era digitale, Anicia, 2015
  • Id., Estensione o comunicazione? Analisi di un contributo di Paulo Freire al processo teorico-pratico dell’educazione comunicativa, in «La Famiglia», Annuario 2016, Editore Studium
  • Freire P., Extensão ou Comunicação?, Paz e Terra, Rio de Janeiro 1968
  • Id., L’educazione come pratica della libertà, Mondadori, 1973
  • Id., La pedagogia degli oppressi, EGA, 2011
  • Id., Faundez A., Por uma pedagogia da pergunta, Paz e Terra, Rio de Janeiro 1984
  • Illich I., Descolarizzare la società, Mimesis, 2009
  • Luhmann N., Eberhard Schorr K., Il sistema educativo. Problemi di riflessività, Armando Editore, 1988
  • Luhmann N., Che cos’è la comunicazione?, Mimesis, 2018
  • Montessori M., Educazione per un mondo nuovo, Garzanti, 1970
  • Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, 1996

Note

1 Cambi F., Le pedagogie del Novecento, Laterza, 2005.

2 Donaggio E. (a cura di), La Scuola di Francoforte. La storia, i testi, Einaudi, 2005 (antologia).

3 Freire fa differenza tra estensione e comunicazione in pedagogia: per estensione si intende quel processo tradizionale di passaggio delle informazioni dall’educatore all’allievo, a senso unico e mirato sull’acquisizione di capacità tecniche, legato a una certa visione gerarchica e manichea dei valori da insegnare; per comunicazione, invece, si intende il reciproco scambio di informazioni tra educatore e allievo, che porta a una comprensione approfondita delle capacità e dei bisogni formativi dell’allievo e, al contempo, alla crescita dell’educatore in rapporto al suo ruolo, promuovendo così un’equiparazione dei valori e del contesto di ognuno. Si veda il saggio di Freire Extensão ou Comunicação?, Paz e Terra, Rio de Janeiro 1968, a proposito del quale mi permetto di segnalare il mio saggio Estensione o comunicazione? Analisi di un contributo di Paulo Freire al processo teorico-pratico dell’educazione comunicativa, in «La Famiglia», Annuario 2016, Editore Studium.

4 Cfr. Freire P., Faundez A., Por uma pedagogia da pergunta, Paz e Terra, Rio de Janeiro 1984. La traduzione dall’originale portoghese è mia.

5 Il “Metodo Freire” consiste in una proposta per l’alfabetizzazione degli adulti sviluppata a partire dalle esperienze del pedagogista brasiliano in qualità di direttore del Dipartimento di diffusione culturale dell’Università di Recife, dove aveva formato un gruppo di lavoro per alfabetizzare 300 tagliatori di canna da zucchero, ottenendo il risultato voluto in 45 giorni. L’opera in cui Freire espone il suo metodo in questi termini è Educazione come pratica di libertà, sua prima opera sistematica, antecedente di qualche anno rispetto a La pedagogia degli oppressi, che darà al Metodo lo spessore teorico di cui possiamo recuperare oggi il valore. Cfr. L’educazione come pratica della libertà, Mondadori, 1973; La pedagogia degli oppressi, EGA, 2011.

6 Illich I., Descolarizzare la società, Mimesis, 2009.

7 Ibid., pag. 31.

8 Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, 1996.

9 Ibid., pag. 67-68.

10 Luhmann N., Eberhard Schorr K., Il sistema educativo. Problemi di riflessività, Armando Editore, 1988.

11 Montessori M., Educazione per un mondo nuovo, Garzanti, 1970.

12 Luhmann N., Che cos’è la comunicazione?, Mimesis, 2018.

13 Mi permetto di rimandare al mio Biblioteca e formazione della cittadinanza attiva nell’era digitale, Anicia, 2015.

14 Crouch C., Postdemocrazia, Laterza, 2003.

15 Si consiglia a titolo di esempio Dall’Ò G., Smart City. La rivoluzione intelligente delle città, il Mulino, 2014.