Dicotomie pedagogiche nello stato di emergenza: libertà individuale versus responsabilità collettiva
Pubblicato in Diritto ed economia nello stato di emergenza: mutamenti strutturali nella / della realtà sociale, a cura di R. Smolla e L. Albino, CEDAM, Padova 2021.
Sommario: Premessa – 1. La pedagogia come processo sociale – 2. Ignoranza ed emergenza, ovvero il trionfo delle fake news – 3. La risposta collettiva e individuale alle epidemie – 4. Ritornando alle linee prospettiche
Premessa
La crisi mondiale causata dalla pandemia ha evidenziato grandi problemi nella preparazione collettiva alle emergenze sanitarie, dovuti a numerosi fattori socio-politici, economici, amministrativi, organizzativi e, non da ultimo, culturali. Ogni Paese ha risposto all’emergenza epidemiologica in modo diverso, seguendo le caratteristiche proprie della situazione interna, delineando però una forte differenza tra macro-regioni, secondo un asse reminiscente di divisioni novecentesche: l’Est, da cui è partita la pandemia, è riuscito a contenere e, in alcuni casi, a fermare la diffusione del virus; mentre l’Ovest, nonostante un certo vantaggio temporale nell’arrivo della prima ondata di contagi, è stato colpito duramente e ancora è soggetto a ondate di ritorno, cui riesce a far fronte solo con grosse difficoltà. La Repubblica Popolare Cinese, epicentro della pandemia, seguita da Singapore, Corea del Sud e Giappone, dopo l’inizio disastroso dell’emergenza ha messo in campo risorse materiali e umane in tempi molto rapidi, contando sulla disciplina delle popolazioni e rafforzando la risposta collettiva su più livelli. L’Italia, uno dei Paesi più colpiti, e in seguito gli USA, la Francia, il Brasile et alii, ha pagato altissimi costi umani e sociali, nonché economici, dalla difficoltà costante nella pianificazione di una risposta adeguata, dovendo scontrarsi con la diffidenza di una parte della popolazione verso misure restrittive necessarie, ma percepite come una violazione delle libertà individuali, se non addirittura una farsa, un pretesto per dare luogo a scenari distopici, degni del peggior complottismo. In cosa la macro-regione dell’Ovest sembra essere in difficoltà, rispetto alla macro-regione dell’Est? Una risposta univoca sarebbe di certo riduttiva e inadeguata; ma tra i molti campi in cui è possibile ravvisare un gap, vi è la generica concezione dell’educazione come un processo anzitutto individuale e solo in secondo piano sociale. La libertà individuale, cioè, viene culturalmente esaltata sopra ogni cosa, talvolta a scapito della responsabilità verso le forme associate del vivere comune, cosa che ha portato in quest’ultimo anno a manifestazioni irresponsabili di opposizione e insofferenza a ogni tipo di profilassi adottato e imposto per il contenimento dei contagi. Ciò non vuol dire che l’intera popolazione italiana, statunitense o brasiliana, si sia comportata in tal modo; una maggioranza di persone si è adeguata alle norme restrittive, comprendendone la necessità. Il problema risiede però nella disomogeneità enorme delle reazioni alla necessità stessa, con tutti i rischi connessi al rifiuto della profilassi, alla rivendicazione socio-politica di libertà che si percepiscono “a rischio” e quindi alla diffidenza (e alla relativa disobbedienza) verso istituzioni medico-scientifiche, governamentali, ecc.. D’altro canto, è innegabile che il successo della risposta collettiva dei Paesi orientali poggi su realtà molto diverse non solo dal punto di vista culturale, ma anche istituzionale; la Repubblica Popolare Cinese, ad esempio, è retta da un governo autoritario che non permette, in nessun caso, la disobbedienza alle norme promulgate, e dispone di una potenza di ricollocazione delle risorse pressoché impossibile nei Paesi democratico-liberali. La città-Stato di Singapore, formalmente democratica, possiede un apparato amministrativo pubblico efficientissimo, che funge da regolatore di tutte le attività sociali. La Corea del Sud e il Giappone, al pari dei primi due, contano su una cultura fondamentalmente collettivistica, in cui il bene sociale è al di sopra di quello individuale, sempre e comunque. Non si tratta dunque di riproporre in occidente modelli fondati su culture molto diverse, bensì di recuperare quanto di necessario e forse “obsoleto” ci sia nella cultura collettiva, al fine di educare e preparare le prossime generazioni a mediare la libertà dell’individuo con la responsabilità sociale, entrambe egualmente necessarie.
1. La pedagogia come processo sociale
La responsabilità è un concetto, in certo senso, controverso. Può essere infatti vista come qualità positiva necessaria e al contempo come costrizione repressiva; come base di un progresso armonico, o come freno alla libertà creativa in nome di visioni conservatrici. Senza dubbio, la tendenza prevalente dipende dal contesto in cui tale concetto viene richiamato; non è possibile farne oggetto di discorsi astratti e generali, senza scadere in posizioni aprioristiche e ideologiche. Un esempio della complessità legata al contesto di applicazione è l’opera pedagogica del maestro sovietico Anton Semënovic Makarenko1, da cui prenderemo le mosse per delineare la relazione tra responsabilità, disciplina e strutture della vita associata.
Il punto da cui conviene partire è la critica portata da Makarenko a Rousseau. Il filosofo francese è, come noto, fautore di un individualismo rivoluzionario, in cui si fondono libertà e natura per l’emancipazione dalla corruzione della società conformistica e repressiva dell’epoca; per dare corpo alle sue idee pedagogiche scrive Emilio2, storia romanzata della crescita di un ragazzo secondo l’idea della bontà originaria dell’uomo, in contrapposizione alla severa educazione gesuitica. Il ragazzo, per non essere corrotto, viene allontanato dalla società, dalle sue strutture familiari, scolastiche e lavorative, per essere cresciuto nel regno dell’assoluta libertà, ossia a pieno contatto con la natura e l’attività concreta, mentre la sua unica lettura è il Robinson Crusoe di Defoe, ideale dell’uomo che riesce a superare le avversità con le proprie sole forze. Questa idea dell’uomo libero in quanto uomo solo, propugnata da Rousseau, è rivoluzionaria nel 1762, anno della prima edizione dell’Emilio, sia in quanto critica alla mentalità feudale dell’Antico Regime, sia in quanto prodromo della società futura, capitalistica e democratica. Ma l’uomo individualista finisce col diventare l’antitesi del cittadino nella società, poiché l’educazione al di fuori del contesto e delle strutture sociali si trasforma, soprattutto nella modernità avanzata della società di massa, in disadattamento, incapacità di collaborare, di comprendere le trame di relazioni e rapporti reali in cui l’individuo è immerso. L’uomo libero e solo è anche egoista, avendo costruito la propria personalità e l’immagine di se stesso sull’idea di non aver bisogno degli altri, di non aver necessità di confrontarsi, di non dover associare alcun tipo di responsabilità alla propria libertà (che, in quanto assoluta, non ha limiti)3.
Makarenko non si scaglia contro questo spontaneismo naturalistico rousseauiano per questioni meramente ideologiche. Non contrappone idealmente l’uomo collettivista, il lavoratore che edifica il socialismo, all’individualista borghese. Per il pedagogista sovietico, le idee libertarie di Rousseau semplicemente non funzionano nella realtà della Russia rivoluzionaria degli anni Venti: i suoi colleghi propongono l’Emilio come antidoto alla vecchia, severa, coercitiva disciplina passiva dell’educazione zarista e religiosa, ma in condizioni tali4 in cui la libertà si trasforma sovente in anarchia, mina alle basi il reinserimento nella società di orfani e piccoli criminali, sostenendo in ultima istanza la formazione di prospettive egoistiche, deleterie per la nuova società di collaborazione e lavoro collettivo. Né Makarenko elabora la sua critica a tavolino: definendo i colleghi idealisti «Olimpo pedagogico», a indicarne l’astrazione dalla realtà, costruisce la sua posizione nella pratica delle colonie di recupero degli orfani in cui si trova ad operare, giorno dopo giorno, per il reinserimento dei bambini e dei giovani nella società da cui erano stati abbandonati5. Grazie a questa esperienza sul campo, la formulazione teorica makarenkiana poggia su basi laboratoriali e l’elaborazione della teoria delle linee prospettiche ne è il frutto: l’individuo, pur nella sua autonomia, deve tener presente che ogni sua azione è legata a quelle degli altri, in una rete di rapporti, relazioni, cause ed effetti; specularmente, il collettivo deve possedere la generale consapevolezza che la vita associata è il risultato delle interazioni individuali. Ciò comporta due linee di prospettiva nell’azione pedagogica, per cui allo sviluppo delle capacità individuali deve corrispondere lo sviluppo delle relazioni del collettivo. Una sorta di insegnamento/apprendimento mutuale, il cui collante è la disciplina, intesa come formazione di valori etici e morali attraverso la collaborazione e la partecipazione alla vita in comune.
Senza questa corrispondenza, o presa di coscienza, la prospettiva individuale è incline a generare atteggiamenti egoistici, che portano all’irresponsabilità verso le esigenze e i problemi della collettività; allo stesso modo, la prospettiva collettiva perde la sua direzionalità, tende a sfaldarsi e a non fornire più scopi e obiettivi. Una disciplina cosciente, motivata, che faccia comprendere ai membri del collettivo il perché di ogni decisione (anche punitiva), rafforza quella convergenza di prospettive e ha come risultato la responsabilità dell’individuo di fronte alla società. Makarenko estende poi tale idea all’educazione in seno alla famiglia, guidato dall’idea dello scrittore Maksim Gorkij per cui ogni allievo è costruttore della vita futura; dunque i genitori hanno la responsabilità di educare i propri figli a essere consapevoli di far parte di una società e a essere altrettanto responsabili6.
Tutto questo rende evidente due questioni: l’educazione come processo sociale, inserita nel contesto delle strutture di vita associata di cui è espressione e, al tempo stesso, strumento di evoluzione progressiva; e la tensione dicotomica attuale tra libertà e responsabilità, in cui la libertà è spesso ancora intesa – e insegnata – in senso solitario, individualistico, mentre la responsabilità solidale resta un limite, un argine all’egoismo assoluto, che nelle società occidentali non sembra trovare posto. Una società collettivista è inevitabilmente una società più disciplinata, come molte società orientali; e se la disciplina è il volano della responsabilità, allora la società individualista spinge verso una libertà che, da bene prezioso per tutti e per ciascuno, rischia di degenerare in frammentazione irresponsabile della sfera pubblica.
2. Ignoranza ed emergenza, ovvero il trionfo delle fake news
Il problema dell’impreparazione alle risposte collettive non deriva, certo, soltanto da questioni di educazione diretta. Se, come si è accennato, la pedagogia coinvolge in via generale l’intera società, allora la mancanza di una società educante, nelle sue formulazioni informali, è un freno anche per le istituzioni formali e l’azione educativa. Oggi è evidente il fenomeno delle fake news, notizie false, manipolate o distorte, diffuse tramite le reti sociali senza alcun filtro, per interesse o per semplice malevolenza, con cui si contribuisce a creare disinformazione, reazioni emotive e opposizioni prive di argomentazioni razionali. Ma non si tratta di un fenomeno del tutto nuovo, naturalmente: in ogni emergenza, nella storia, sono rinvenibili gli stessi meccanismi, dagli “untori” de I promessi sposi a casi di veri e propri linciaggi nei confronti del personale medico, accusato di diffondere scientemente le malattie. Rimanendo nell’asse Est-Ovest, la Russia imperiale offre numerosi esempi della deriva irrazionale che dicerie incontrollate possono provocare.
Il primo è l’epidemia di peste che colpì l’Impero russo verso la fine del nel XVIII secolo. Ebbe inizio col ritorno a Mosca dei soldati dalla guerra contro l’Impero ottomano; la diffusione del virus fu velocissima e in breve tempo iniziarono a morire migliaia di persone. Le autorità cittadine furono incapaci di contenere il contagio e il governatore arrivò ad abbandonare Mosca, lasciandola nel caos: i cadaveri si ammassavano per le strade, chi se ne occupava rimaneva contagiato e presto si aggiungeva ai morti, mentre il panico si impadroniva della popolazione. Alle porte della città fu allora affissa una icona religiosa, che si diceva avesse la capacità di proteggere dal contagio; quando la notizia si diffuse, migliaia di persone si accalcarono per pregare e baciare l’immagine sacra, facendo così esplodere il numero di ammalati. Di fronte a ciò, l’arcivescovo Ambrogio decise di rimuovere l’icona, ma la risposta fu ancora peggiore: la folla, costituita in larga parte da contadini impoveriti e disperati, insorse, assaltò il Cremlino e, catturato l’arcivescovo, lo linciò. A quel punto, la zarina Caterina la Grande decise di far sedare le rivolte dall’esercito, che entrò in forze nella città e attuò una dura repressione.
Ma anche l’atteggiamento opposto, di rilassata ironia sulla presunta gravità dell’emergenza, ha lasciato spazio alla diffusione di malattie mortali, portando in seguito agli stessi risultati. L’esempio più drammatico di epidemia presa inizialmente “sotto gamba” è quello del colera che dilagò nel 1830 a Mosca. Sebbene da circa un decennio vi fossero problemi con questa malattia nelle province caucasiche dell’Impero, quando i primi casi si manifestarono nella grande città la reazione fu di noncuranza ed eccessiva fiducia nelle condizioni climatiche: il freddo del settentrione, certamente sfavorevole – in linea di massima – al contagio, unitamente ai rimedi più diffusi dell’epoca (come le fumigazioni disinfettanti), avrebbe protetto i moscoviti dall’epidemia. L’importante, come riportavano i giornali, era mantenere uno spirito ottimista e vivace, senza lasciarsi prendere dal panico. Una fiducia nel buon umore e nel clima che si rivelò, in definitiva, irresponsabile, facendo accatastare i cadaveri fino all’estate dell’anno successivo, colpendo anche l’allora capitale San Pietroburgo. I medici ricorsero a metodi di disinfezione più “moderni”, consigliando di lavarsi le mani con soluzioni di aceto e cloro; vennero imposte quarantene, vietando attività collettive nei luoghi pubblici, dalle università ai parchi, per lavoro o intrattenimento, cosa che colpì il commercio e provocò una crescente insofferenza, presto sfociata in incidenti e rivolte. Si aggiunse la diceria secondo cui i medici stessi, per chissà quale malvagio complotto, avvelenassero il cibo, i pozzi e i giardini per diffondere il colera (e se non erano loro, forse erano i polacchi, in quel periodo insorti contro lo Zar, usando perciò il contagio come arma di guerra7). Risultato: folle inferocite linciavano presunti untori, arrivando ad assaltare un ospedale pieno di malati e contribuendo così a nuovi contagi.
Solo l’intervento repressivo dell’esercito e dello zar Nicola I riuscirono a calmare, almeno in parte, la situazione, che però fu presto emulata in altre città, sempre a causa delle false notizie su avvelenamenti dolosi da parte delle autorità. A Sebastopoli, per esempio, erano già in vigore misure di quarantena da un paio d’anni a causa di un’altra epidemia di non chiara origine; l’inasprimento delle misure preventive contro il colera, che arrivarono al vero e proprio lockdown (con divieto di uscire di casa, chiusura di tutte le attività e soprattutto delle chiese), portò a una feroce rivolta cui si unirono anche alcune truppe di soldati mandate a sedarla, convinti che si trattasse di una messa in scena e non ci fosse, in realtà, alcuna epidemia. Anche in questo caso, l’ordine fu ripristinato a duro prezzo8.
Questi esempi9 rendono evidente un atteggiamento irrazionale che oggi si ripresenta a livello globale, dall’Europa alle Americhe, nel fenomeno del negazionismo, i cui esponenti sono convinti delle più diverse dicerie complottistiche, dalla pura invenzione di un virus inesistente, usato come leva per imporre nuove forme dittatoriali e favorire interessi economici di soggetti estranei, ai rischi enormemente maggiori della vaccinazione rispetto al contagio, con cui si inoculerebbero sostanze sperimentali nocive o addirittura improbabili “microchip” di controllo della popolazione. La diffusione di fake news tramite Internet è l’equivalente moderno globalizzato sia delle dicerie popolari incontrollate e inverificabili, sia del contagio stesso, che si diffonde a macchia d’olio come un virus virtuale, informatico e informativo, difficile da contenere dagli esiti disastrosi.
3. La risposta collettiva e individuale alle epidemie
L’insofferenza alle misure restrittive per il contenimento della pandemia sembra essere, dunque, dettata da un misto di paura, ignoranza, disinformazione e incapacità di comprendere la necessità di un sacrificio delle prerogative individuali in vista di un bene superiore; non astratto, ideale, bensì concretamente inclusivo della collettività, intesa come insieme delle individualità che la compongono. Questo è un dato fondamentalmente culturale, che deriva da una tensione individualistica molto più spiccata in Occidente.
Dal punto di vista della paura, una particolare resistenza viene opposta a uno dei metodi che hanno permesso alla Repubblica Popolare Cinese, nel corso del 2020, di monitorare attivamente i contagi attraverso il controllo degli spostamenti individuali di ogni cittadino nelle aree colpite, intervenendo in maniera efficiente10. Tale controllo è avvenuto tramite la tecnologia di sorveglianza già presente nelle città, in concomitanza con l’installazione obbligatoria di applicazioni di monitoraggio su tutti gli smartphone. L’incrocio dei dati di videocamere nei luoghi pubblici, pagamenti con carte di credito, tracciature della posizione GPS, immagini dai droni della polizia e via dicendo (in sostanza, i cosiddetti big data), ha rafforzato e velocizzato la mappatura delle zone critiche e la loro chiusura totale; sulla stessa linea operativa, ognuno con caratteristiche proprie, si sono distinti altri Paesi come la Corea del Sud, il Giappone e l’Australia11.
Il problema culturale diviene decisivo nel caso della Cina: innanzitutto, la storia del Paese12 dimostra come, ben prima di rivoluzioni e dittature, la mentalità sociale fosse improntata alla necessità di seguire regole di comportamento condivise e accettate secondo l’educazione confuciana; le regole di condotta individuale e collettiva sono infatti più radicate di qualsiasi dettame imposto da governi specifici, in modi che sono per noi di non facile comprensione13. Poi, la popolazione cinese è abituata al controllo da parte delle autorità e, in linea di massima, vi è favorevole (per quanto si debba tenere conto che il dissenso non è tollerato), assicurando perciò ampia collaborazione alle operazioni di test, tracciamento e trattamento. Infine, la memoria ancora viva dell’epidemia di SARS del 2002 ha giocato a favore dell’immediata comprensione di agire sul piano collettivo per una reazione efficace e aggressiva, cosa che in altri Paesi non è stata percepita.
Oltre al tracciamento e alla vasta campagna di test, governo e autorità locali hanno allocato risorse per la costruzione di ospedali provvisori, l’afflusso di personale medico dall’intero territorio nazionale e accelerato la produzione di materiali di profilassi. Cosa che non è stata esente da fallimenti iniziali, difficoltà di ogni genere e un numero considerevole di morti14, ma i risultati di contenimento rapido, forte inflessione della curva di contagi e di morti, hanno raggiunto percentuali di successo decisamente superiori a molti altri Paesi, in particolar modo a quelli i cui governi hanno prestato fede a teorie del complotto, minimizzazioni irresponsabili e stolide difese di posizioni propagandistiche compromesse dai fatti, come gli USA e il Brasile, in cui ondate successive di nuovi contagi hanno fatto salire la percentuale di morti e messo in seria difficoltà i relativi sistemi sanitari. Per contro, il riconoscimento dell’efficacia delle misure adottate in Cina e in altre nazioni orientali è stata riconosciuta pienamente dall’Organizzazione Mondiale della Salute15.
Il modello d’azione cinese sembra essere inapplicabile nei Paesi occidentali, ma non è solo questione di regime politico vigente. Un parallelo tra l’Italia e la Corea del Sud16, una nazione democratica con una popolazione analoga in termini numerici, mostra come la soluzione del tracciamento individuale, qui, non sia un’opzione ritenuta accettabile: i due Paesi sono stati colpiti dai contagi nello stesso periodo, ma, almeno nella fase iniziale (marzo 2020), la Corea del Sud ha allestito un contenimento limitato a una città, Daegu, alcuni condomini e qualche migliaio di persone, registrando morti nell’ordine di decine; l’Italia ha inizialmente isolato i gravi focolai di Lodi e Padova con tutti comuni limitrofi, per poi estendere le misure all’intero territorio nazionale, arrivando ad avere milioni di persone in quarantena e morti nell’ordine di migliaia. In Corea, il tracciamento tecnologico individuale ha dato la possibilità di monitorare i contagiati e le persone a rischio una per una, impegnando di più per quanto riguarda la somministrazione di test (centinaia di migliaia), ma avendo l’esatta dimensione della diffusione virale; in Italia, dopo una iniziale campagna di test, le difficoltà di monitoraggio hanno reso necessaria la quarantena generalizzata, con il vantaggio di agire anche sul territorio privo di focolai riconosciuti, ma lo svantaggio di non avere la chiara visione dell’espansione del virus. A ciò bisogna aggiungere la celere adozione, da parte coreana, delle stesse misure di accesso ai dati da parte delle autorità per il tracciamento, con possibilità di rendere pubblici alcuni di tali dati, al fine di informare chi ha avuto contatti con persone contagiate di mettersi in auto-quarantena (o di avvisare parenti e amici), monitorato in remoto; laddove in Italia si è assistito a “fughe” di massa dai focolai di gente intenzionata a tornare nelle regioni di origine prima dell’ufficializzazione del lockdown e alla successiva, decisa resistenza all’installazione dell’applicazione Immuni per il tracciamento – installazione peraltro lasciata all’iniziativa individuale. La privacy, necessariamente sacrificata in Corea del Sud, è ritenuta un bene irrinunciabile in Italia (al netto delle contraddizioni in tema di condivisione dei dati personali su social network e altre applicazioni), rendendo inapplicabile l’approccio orientale all’emergenza.
4. Ritornando alle linee prospettiche
Makarenko, come detto, sostituisce all’idea della spontaneità individuale quella della disciplina, che fonda un tipo pedagogico di indirizzamento dell’individuo verso l’integrazione nel collettivo, laddove lo spontaneismo può aprire a tendenze egoistiche. La maturazione attraverso la disciplina della responsabilità, è uno dei risultati più importanti dell’azione pedagogica, perché unisce l’applicazione delle regole collettive alla comprensione della loro ragion d’essere, contribuendo così alla formazione di linee prospettiche condivise tra i pensieri individuali e quelli collettivi, ossia la coscienza politica rivolta all’edificazione della società. Socialista nel caso di Makarenko17, quindi collettivista per impostazione, ma così anche per le società liberal-democratiche dell’era globalizzata, in quanto forma di recupero della dimensione pubblica dell’individuo.
La dicotomia pedagogica tra libertà e responsabilità, oltre a essere un elemento di dibattito teorico in seno all’ambito dell’educazione, è un elemento costitutivo dell’equilibrio precario tra microeconomia e macroeconomia, tra interesse privato e interesse pubblico. Una dicotomia trasversale, che nella sua politicità trova sponde in tutti gli schieramenti e soggetti sociali, per le più diverse ragioni. Ciò nondimeno, è una questione politica e pedagogica insieme, sempre ammesso che possa esistere una pedagogia non implicata nella vita politica di ogni nazione; questo intreccio indissolubile si ripropone in ogni aspetto delle strutture sociali, in cui gli individui non sono “intrappolati”, bensì parte integrante del tessuto di relazioni, la cui responsabilità è presente anche quando non percepita. Per questo oggi torna attuale l’adozione di quelle linee prospettiche adottate in un contesto e in un periodo storico ben definiti e apparentemente lontani: quell’esperienza sul campo, che a suo tempo ha insegnato a un maestro di scuola come coinvolgere ragazzi e ragazze allo sbando in un lavoro di gruppo, attraverso cui ognuno ha compreso il proprio ruolo e la propria influenza sugli altri, ricorda agli educatori di oggi e del futuro la necessità di ricomporre la dicotomia, di annullare l’assolutezza delle sue prospettive, il trade-off tra libertà e responsabilità che porta a una irresponsabile immaturità sociale, a una crescita personale priva di profondità prospettica, a una concezione solitaria dell’individuo e a una pretesa adolescenziale dìed egoistica dell’assenza di “gabbie”, ossia di doveri inderogabili. Ma quei doveri inderogabili, che in Italia sono sanciti nella Costituzione, sono il necessario complemento ai diritti civili, sociali e politici, che solo se intesi assieme ai doveri, possono diventare compiutamente inalienabili.
Riferimenti bibliografici e sitografici
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Note
1 A. S. Makarenko, Poema pedagogico, Editori Riuniti, Roma 1960.
2 J. J. Rousseau, Emilio, Laterza, Roma-Bari 2003.
3 L. Lombardo Radice, Anton Semionovic Makarenko, in Scuola e pedagogia nell’URSS. Atti del convegno di Siena 8-9 dicembre 1951, Associazione Italia-URSS, pag. 51.
4 Decine di migliaia sono gli orfani e i bambini abbandonati a se stessi durante la guerra civile russa (1918-1921), che vivono in condizioni miserevoli e spesso diventano criminali, riunendosi in piccole bande delinquenziali. Le autorità li riuniscono in colonie di studio e lavoro, sperimentando vari metodi di rieducazione, spesso inutilmente coercitivi o inefficacemente libertari. Makarenko è ispettore scolastico, quando viene assegnato alla direzione della prima comune.
5 Le diverse e difficili esperienze come la Colonia Gorkij e la Comune Dzeržinskij hanno costituito il laboratorio da cui è emersa la teoria pedagogica makarenkiana. L’educazione libertaria non sortisce effetti (gli orfani abbandonati vivevano già in assoluta libertà), né basta la semplice correzione punitiva, tipica della disciplina passiva e stolida della vecchia educazione imperiale; e Makarenko, ricevuto l’incarico di gestire una comune, trae dall’esperienza quotidiana alcuni principi teorici, che egli riunisce in opere letterarie, testi teatrali e conferenze. Oltre a Poema pedagogico, la sua opera maggiore, si segnalano Bandiere sulle torri e La marcia dell’anno ‘30. Per quanto riguarda le conferenze, si veda A. S. Makarenko, La pedagogia scolastica sovietica, Armando, Roma 1974.
6 A. S. Makarenko, Consigli ai genitori, Associazione Italia-URSS, 1950.
7 B. Egorov, Le tre più terribili epidemie nella storia della Russia, pubblicato in “Russia Beyond” il 06/01/2020, disponibile in rete all’indirizzo: https://it.rbth.com/storia/83832-le-tre-pi%C3%B9-terribili-epidemie
8 G. Manaev, Così le epidemie in Russia hanno scatenato linciaggi e rivolte nel corso della storia, pubblicato in “Russia Beyond” il 20/03/2020, disponibile in rete all’indirizzo: https://it.rbth.com/storia/84124-cos%C3%AC-le-epidemie-in-russia
9 C’è da dire che la modernizzazione accelerata della successiva era sovietica mise in grado il Paese di reagire in modi molto più efficaci e rapidi alle successive emergenze. Cfr. B. Egorov, Come l’Urss riuscì a bloccare tre paurose epidemie: di peste, di vaiolo e di antrace, “Russia Beyond”, 27/03/2020 (https://it.rbth.com/storia/84165-come-lurss-riusc%C3%AC-a-bloccare).
10 T. Burki, China’s successful control of COVID-19, pubblicato in “The Lancet” il 22/10/2020 e disponibile in rete all’indirizzo: https://www.thelancet.com/journals/laninf/article/PIIS1473-3099(20)30800-8/fulltext#%20
11 V. Aiello, Come la Cina ha affrontato (e battuto) il coronavirus, pubblicato in “Fanpage.it” il 02/11/2020, disponibile in rete all’indirizzo: https://scienze.fanpage.it/come-la-cina-ha-affrontato-e-battuto-il-coronavirus/
12 Si consigliano N. Colajanni, La Cina contemporanea, 1949/1994, Newton&Compton, Roma 1995; e J.A.G. Roberts, Storia della Cina, Newton&Compton, Roma 2007.
13 Si consiglia R. Pisu, Né dio, né legge. La Cina e il caos armonioso, Laterza, Roma-Bari 2013.
14 D. M. De Luca, Come la Cina ha affrontato l’epidemia, pubblicato in “Il Post” il 21/03/2020, disponibile in rete all’indirizzo: https://www.ilpost.it/2020/03/21/cina-epidemia-coronavirus/
15 La trascrizione della press conference dell’OMS è disponibile in formato PDF all’indirizzo: https://www.who.int/docs/default-source/coronaviruse/transcripts/who-transcript-emergencies-coronavirus-press-conference-full-13mar2020848c48d2065143bd8d07a1647c863d6b.pdf?sfvrsn=23dd0b04_2
16 Servizio pubblicato da “Al Jazeera” il 13/03/2020, disponibile in rete all’indirizzo: https://www.aljazeera.com/news/2020/3/13/how-italy-south-korea-differ-in-tackling-coronavirus-outbreak
17 Per quanto attivo e inserito nella temperie della Russia rivoluzionaria sovietica, Makarenko non fu però un pedagogista impegnato come, per esempio, N. K. Krupskaja, fondatrice con altri della Scuola politecnica del lavoro e del Komsomol. Rimane in dubbio se Makarenko abbia effettivamente accolto il marxismo-leninismo come ideologia, o se ne sia in certo modo servito come “patina” per le sue idee di collettivo. Ciò rende, forse, marxista la sua pedagogia solo in un secondo momento, quando dalla pratica concreta si sviluppa la teoria, non sistematica e aperta alla revisione sul campo. Si consigliano A. Bagnato, Makarenko: Biografia come Diario Pedagogico, consultabile sul sito internet dell’Associazione Italiana Makarenko (https://www.makarenko.it/anton-semenovic-makarenko/), e C. Carpinelli, L’attualità dell’insegnamento di Anton Semënovič Makarenko, in “Gramsci oggi”, n. 4-5 [2010]. Mi permetto inoltre di rimandare al mio A proposito degli oppressi. Forme ed esperienze di interventi educativi nella prospettiva pedagogica freiriana, in “I problemi della pedagogia” n. 1/2019, Anicia, in cui metto in relazione la concezione di libertà in educazione di Paulo Freire con la responsabilità makarenkiana.