La culpa in educando come parametro pedagogico di imputazione
Pubblicato, in questa versione, in “Il Nodo” (Falco Editore), supplemento al n. 50 (dicembre 2020). Originariamente apparso in una versione differente su “Il Foro Italiano”, ottobre 2019, V, 407, con il titolo <<Culpa in educando>>: l’ausilio della pedagogia alla giurisprudenza in tema di responsabilità civile dei genitori.
Una delle questioni, tra quelle che maggiormente necessitano dell’ausilio della pedagogia alla giurisprudenza, afferisce al configurarsi di una ipotesi di responsabilità civile in capo ai genitori per i danni causati a terzi da condotte illecite tenute dai figli minorenni.
L’art. 2048 del codice civile afferma testualmente: «Responsabilità dei genitori, dei tutori, dei precettori e dei maestri d’arte. — 1. Il padre e la madre, o il tutore, sono responsabili del danno cagionato dal fatto illecito dei figli minori non emancipati o delle persone soggette alla tutela, che abitano con essi. La stessa disposizione si applica all’affiliante. – 2. I precettori e coloro che insegnano un mestiere o un’arte sono responsabili del danno cagionato dal fatto illecito dei loro allievi e apprendisti nel tempo in cui sono sotto la loro vigilanza. – 3. Le persone indicate dai commi precedenti sono liberate dalla responsabilità soltanto se provano di non aver potuto impedire il fatto».
La giurisprudenza ha tradizionalmente inquadrato tali ipotesi di responsabilità nella categoria giuridica della «culpa in vigilando», individuando il criterio determinante della responsabilità nell’omessa vigilanza. Tuttavia la casistica giurisprudenziale è andata via via arricchendosi di fattispecie nella quali il fondamento della colpa omissiva non appariva più sufficiente a consentire il risarcimento del danno. Si è infatti sottolineato che, mentre il secondo comma della norma richiede esplicitamente che la responsabilità dei precettori e dei maestri d’arte rimanga limitata al tempo in cui gli allievi «sono sotto la loro vigilanza», per i genitori (come per i tutori) tale limitazione non è prevista. Distinguo che ha indotto la giurisprudenza ad imputare ai genitori anche responsabilità derivanti da «culpa in educando».
Il problema della prova liberatoria, attraverso la quale i genitori possono sottrarsi alla responsabilità civile ex art. 2048 c.c., diviene però di complessa risoluzione quando la responsabilità venga configurata a titolo di «culpa in educando», attesa la mancanza di una definizione normativa e la conseguente necessita di parametrarne il concetto sui canoni della scienza dell’educazione.
La norma, infatti, configura una ipotesi di colpa presunta, con inversione dell’onere della prova a carico del responsabile, prevedendo che i genitori (al pari dei tutori, dei precettori e dei maestri d’arte) sono liberati dalla responsabilità soltanto se provano di non avere potuto impedire il fatto.
Una responsabilità a geometria variabile1, nella quale la posizione dei genitori, correlata ai doveri inderogabili di cui all’art. 147 c.c.2 e alla conseguente necessità di una costante opera educativa, finalizzata a correggere comportamenti non corretti e a realizzare nel minore una personalità equilibrata, si ritrova esposta ad una responsabilità di carattere più ampio e gravoso, che va oltre la culpa in vigilando, per sfociare in una specifica ipotesi che la giurisprudenza qualifica come culpa in educando.
Tale specificità comporta che i genitori, ai fini della prova liberatoria, debbano dimostrare di aver impartito al figlio un’educazione normalmente sufficiente ad impostare una corretta vita di relazione, non assumendo alcun rilievo la prova di circostanze idonee ad escludere l’obbligo di vigilare sul minore, dal momento che tale obbligo può coesistere con quello educativo.
La giurisprudenza individua l’inadeguatezza dell’educazione impartita come scaturigine della colpa presunta gravante sui genitori, precisando che essa può desumersi dalle stesse modalità con cui è avvenuto il fatto illecito, potendo tali modalità rivelare lo stato di maturità e l’educazione del minore3, ma non fornisce una definizione di culpa in educando. Donde l’utilità di una riflessione sul versante della pedagogia, al fine di ricercare in essa un supporto virtuoso che valga a riempire di contenuti scientifici appropriati una nozione la cui pienezza, sul piano giuridico, non può prescinderne.
L’approccio pedagogico al problema della responsabilità dei genitori. La correlazione tra educazione (scolastica e familiare) e società è stata sottolineata dai maggiori pedagogisti del XX secolo: la formazione personale nella scuola determina la qualità del cittadino e la sua partecipazione nella sfera pubblica4; l’educazione all’autonomia e alla creatività del minore forma la capacità di azione e pensiero dell’adulto5; la responsabilità dei genitori di fronte alla società è di educare i propri figli a quella stessa responsabilità comportamentale6. Tuttavia, la mutevolezza dei contesti attraverso le epoche fa sì che a queste considerazioni «universali» si aggiungano, di volta in volta, elementi culturali e relazionali che contribuiscono a rendere difficoltosa la ricognizione di parametri oggettivabili e altrettanto difficoltoso il tentativo qui proposto. Vale la pena concentrarsi su alcuni aspetti della relazione tra adulti e minori, del ruolo attuale della famiglia e del rapporto di questa di fronte alla scuola. Studi specialistici giovano al nostro tentativo.
Nella pedagogia moderna non si è mancato di evidenziare che il ruolo fondamentale dell’adulto è l’orientamento delle innate capacità relazionali del minore7. Nella relazione con l’ambiente circostante, e quindi nella costruzione dei rapporti interpersonali, le capacità di comunicazione e di reazione agli stimoli e agli stress risultano tanto migliori quanto più è presente la mediazione dell’adulto (nel senso, è chiaro, di un orientamento positivo). Nei contesti disturbati, il minore deve poter incanalare le sue capacità relazionali verso un modello di resistenza e reazione alle frustrazioni, che è coadiuvato dall’intervento di almeno una figura adulta. L’età evolutiva del soggetto necessita, insomma, di una mediazione con il contesto di esperienze con cui interagisce.
La carenza educativa si configura allora come la risposta negativa agli stimoli ambientali, dovuta al grado di accettazione e comprensione del minore, il quale, in mancanza di un orientamento, può percepire i dati che riceve come un «pericolo», reagendo secondo le regole apprese, ma spesso dando una risposta «abnorme», che in realtà è funzionale all’evento e in linea con il percorso evolutivo del soggetto. La ricaduta sull’ambiente (conseguenze) genera un circolo vizioso di risposte negative, che aggrava il fenomeno avviato (nei casi gravi, ciò si risolve nel disadattamento). La mediazione dell’adulto, quindi, modifica la relazione tra influenza contestuale problematica e reazione del soggetto: attraverso l’orientamento delle capacità potenziali e la preservazione da turbamenti eccessivi, l’adulto instaura una interdipendenza dinamica tra il minore e il contesto, in cui si sviluppano le forme di adattamento che consentono risposte adeguate alle situazioni. Diviene allora evidente la responsabilità che compete al genitore nel suo ruolo di mediatore: l’interdipendenza di cui sopra è un dato di fatto; l’orientamento e la mediazione modificano la costruzione dei parametri di tale interazione soggetto-contesto. La carenza educativa si disegna perciò come disimpegno o inadeguatezza dell’adulto, che lascia il minore in balia degli eventi.
La famiglia, in teoria ente primario di educazione e formazione, presenta aspetti pedagogici altrettanto problematici. Si delinea come sistema relazionale ora chiuso, ora soggetto alle mode del momento. La capacità normativa e le funzioni pubbliche e private che le appartengono sono spesso svolte in maniera frammentaria, nel disinteresse verso il proprio ruolo e l’ambiente circostante. Essa assume atteggiamenti contraddittori e passivi rispetto ai dettami socio-culturali, senza rielaborare e adattare i dati che assume; non ha un quadro di riferimento entro cui formare la visione del mondo, che sarebbe invece il suo imperativo pedagogico. Pati si concentra sulla de-istituzionalizzazione della famiglia, ridotta a soggetto che contribuisce ai settori di vita, ormai privo dello status di centro primario delle relazioni umanizzanti. Il tessuto normativo che adattava le novità e rifiutava le deviazioni nel consesso familiare è venuto meno, scomparendo con esso principî e regole «forti» e strutturati.
I criteri di esistenza della famiglia si basano su convinzioni temporanee e relative, che non orientano più nella condotta in modi fermi e continuativi. Gli interessi che fanno sussistere la famiglia sono di tipo individualistico, con la ricerca dell’appagamento personale al posto della responsabilità sociale, derivante, secondo Pati, dal disinteresse verso la procreazione e dalla facilità del divorzio. Ciò apre la strada a varie tipologie di «pericoli» da superare. Il calo delle nascite favorisce l’invecchiamento della popolazione, che porta alla frammentazione del rapporto intergenerazionale; gli adulti si avvantaggiano della propria conservazione a scapito del rinnovamento giovanile, mentre i giovani rifiutano la memoria storica, deresponsabilizzandosi. La scelta frequente di avere un unico figlio è spesso accompagnata da una iperprotezione psicologica e materiale dello stesso; il «primogenito perpetuo», preferito alla prole numerosa di un tempo, rende il figlio soggetto a una interiorizzazione egoistica del genitore. Ogni sua richiesta è soddisfatta, i rapporti domestici non lo stimolano a desiderare e perseguire con impegno un obiettivo. Nell’adolescenza si decentra con difficoltà e non è spinto ad agire responsabilmente, sviluppando un’autonomia decisionale alquanto blanda.
A ciò si aggiunge la difficoltà di usufruire di buoni momenti di socialità interpersonale con i coetanei. Il minore può andar bene a scuola, ma soffrire di isolamento, iperprotezione affettiva e quindi di inadeguatezza a ordinare i rapporti personali, a vivere le contraddizioni dell’adolescenza in quanto tali (e non secondo schemi adulti lontani dal contingente), infine a sottostimare le esigenze altrui. Il figlio unico non apprende a «fraternizzare», a condividere spazi, risorse e affetti, ad accettare le differenze interindividuali. La presenza di fratelli spinge a uscire da una visione egoistica e assumere comportamenti complessi, conciliando le proprie esigenze con quelle altrui e sperimentando iniziative e condotte di autonomia. La società fraterna è in sé «dialogica».
Il rapporto scuola-famiglia, infine, riguarda il tema della corresponsabilità educativa tra i due enti. Si tratta di un rapporto, come è noto, alquanto sofferto. Esiste una diffidenza di base tra genitori e insegnanti, che si accusano a vicenda del disagio e dell’insuccesso scolastico dei minori. Ma un’istituzione non esautora l’altra: la famiglia ha una funzione soprattutto educativa (istruisce mentre educa); la scuola ha una funzione soprattutto istruttiva (educa mentre istruisce). Nella collaborazione e partecipazione tra le due entità è la famiglia ad avere il primato educativo, laddove la scuola agisce al suo servizio secondo il principio di sussidiarietà (art. 29, 30 e 31 Cost.): il diritto-dovere di educare e istruire è primario per la famiglia rispetto a qualsiasi altro ente; essa non può delegare le funzioni, né la scuola può esautorarla. La famiglia va intesa come luogo di vita in cui la cultura diviene stile di comportamento. Stante il suo primato, va esaltata come luogo educativo di base, affinché i genitori riacquistino il senso della responsabilità che compete loro di fronte alla società.
Tracciando coordinate teoriche e culturali che tengano conto dei profili studiati dalla scienza dell’educazione, sarà possibile dare consistenza giuridica al concetto di culpa in educando, elaborando criteri oggettivi che, segnando un punto di coerenza, si rivelino di migliore applicabilità in un settore della responsabilità civile rispetto al quale si avverte, sempre più acuta e urgente, la necessità sociale di una risposta adeguata alla tutela dei diritti coinvolti in vicende di danno che hanno per protagonisti il minore, autore della condotta dannosa, e i suoi genitori.
Una definizione della culpa in educando, nel quadro della responsabilità civile profilata dall’art. 2048 c.c., si presenta di difficile individuazione, sol che si consideri come la prova liberatoria richiesta dalla norma consista nella dimostrazione di avere impartito ai figli minorenni un’adeguata educazione al rispetto delle regole e della civile convivenza. Dimostrazione di per sé non oggettiva, ma legata alle caratteristiche del fatto illecito commesso, che potrebbero implicare o meno una carenza educativa. Non è infatti questione semplice determinare di che tipo di carenza si tratti, se la mancata educazione riguardi ad esempio la sfera valoriale, la sfera affettiva o altri aspetti che, comunque, convergono in vari modi nella formazione personale.
La giurisprudenza ha chiarito che per «educazione» non deve intendersi la mera istruzione: ossia, l’iscrizione e la frequentazione di un istituto scolastico, quale ne sia il livello qualitativo o la natura curriculare e professionale, non costituisce in sé prova di adeguata educazione8. La dottrina giuridica, poi, non ha mancato di rilevare come la responsabilità genitoriale, imputata per «colpa presunta», non basandosi su criteri oggettivi, genera incoerenze nella gestione pratica delle corti. La prova liberatoria diviene quasi impossibile, dato che la carenza educativa desunta a posteriori rende la regola rigidamente severa, estendendosi per esempio ai genitori separati non coabitanti (i quali, non avendo di norma rapporti quotidiani con i figli, esercitano meno intensa incisività educativa). La ricerca dell’applicazione di una responsabilità oggettiva porterebbe a una maggiore coerenza sistemica e fornirebbe incentivi corretti sulle precauzioni genitoriali da adottare9.
Ponendosi la questione della carenza educativa sul piano della necessità di rintracciare dove, quando e in che modo i genitori hanno fallito nell’educare il minore (non emancipato, capace di intendere e di volere, ultra-quattordicenne) alla responsabilità, ai valori, alla convivenza, ai rapporti sociali e interpersonali, al rispetto degli altri, il criterio della responsabilità oggettiva consentirebbe di sgravare la giurisprudenza dal compito di riempire di contenuti «educativi» la nozione giurisprudenziale di culpa in educando, rimettendo alla capacità percettiva dei genitori il problema delle precauzioni e cautele da adottare, ma lascerebbe irrisolta la questione del corretto adempimento del dovere di educare i figli secondo le loro capacità e inclinazioni (art. 30 Cost. e 147 c.c.).
Attraverso una sinergia fra giurisprudenza e scienza dell’educazione, laddove i fondamenti pedagogico-educativi possono assumere un valore fondamentale rispetto al profilo di una responsabilità genitoriale, sarà possibile pervenire ad una definizione giuridica che dia contenuti certi alla nozione di culpa in educando, quale criterio pedagogico di individuazione della condotta esigibile dai genitori del minore che, rendendosi autore di gravi fatti illeciti, faccia sorgere il legittimo interrogativo sull’idoneità dei genitori al compito loro attribuito dagli art. 30 Cost. e 147 c.c., dando concretezza all’ipotesi, altrimenti del tutto teorica, che, se avessero impartito un’adeguata educazione, avrebbero impedito la deriva comportamentale del figlio.
Bibliografia
- Dewey J., Democrazia e educazione (trad. it.), La Nuova Italia, Firenze, 1949.
- Di Rosa J., Nota a Cass. 31 gennaio 2018, n. 2334, in Foro italiano, 2018, I, 1266.
- Dusi P. – Pati L., Corresponsabilità educativa, La Scuola, Brescia, 2011.
- Makarenko A.S., Consigli ai genitori (trad.it.), Associazione Italia-Urss, Roma, 1950.
- Montessori M., La scoperta del bambino, Garzanti, Milano, 1950.
- Palmieri A., Nota a Cass. 28 agosto 2009, n. 18804, 22 aprile 2009, n. 9556, e Trib. Milano 22 dicembre 2009, in Foro italiano, 2010, I, 1563.
- Pati L., L’educazione nella comunità locale. Strutture educative per minori in condizione di disagio esistenziale, La Scuola, Brescia, 1996.
- Pati L., La politica familiare nella prospettiva dell’educazione, La Scuola, Brescia, 1995.
Nota
1 L’espressione è di J. Di Rosa, nota a Cass. 31 gennaio 2018, n. 2334, in Foro it., 2018, I, 1266.
2 La norma testualmente prevede: Doveri verso i figli. — 1. Il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire, educare e assistere moralmente i figli, nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni, secondo quanto previsto dall’art. 315-bis.
3 In tal senso si esprime Cass. 7 agosto 2000, n. 10357, Foro it., Rep. 2001, voce Responsabilità civile, n. 224.
4 Fondamentale l’opera di J. Dewey, Democrazia e educazione, trad. it., La Nuova Italia, Firenze, 1949.
5 M. Montessori, La scoperta del bambino, Garzanti, Milano, 1950.
6 A.S. Makarenko, Consigli ai genitori, trad. it., Associazione Italia-Urss, Roma, 1950.
7 L. Pati, L’educazione nella comunità locale. Strutture educative per minori in condizione di disagio esistenziale, La Scuola, Brescia, 1996; Id., La politica familiare nella prospettiva dell’educazione, La Scuola, Brescia, 1995; P. Dusi, L. Pati, Corresponsabilità educativa, La Scuola, Brescia, 2011.
8 Cass. 19 febbraio 2014, n. 3964, Foro it., Rep. 2014, voce Responsabilità civile., n. 194.
9 Cfr. A. Palmieri, nota a Cass. 28 agosto 2009, n. 18804, 22 aprile 2009, n. 9556, e Trib. Milano 22 dicembre 2009, Foro it., 2010, I, 1563.